LAMPEDUSA (AGRIGENTO) – Il corpo galleggia nell’acqua, le braccia larghe, le gambe innaturalmente piegate. Sembra un manichino rotto, dall’alto, ma basta zoomare l’immagine con i teleobiettivi dell’elicottero per capire che è un uomo. O forse soltanto un ragazzo. Ce ne sono tanti li’ intorno. “Una scena mai vista”.
L’Ab 212 della Marina militare imbarcato sul pattugliatore Vega è stato il primo, stamani, a giungere sul luogo della tragedia di Lampedusa. “In mare c’erano molti naufraghi, una estesa chiazza di liquido, forse carburante, e nessun segno dell’imbarcazione”, racconta all’ANSA il tenente di vascello Giovanni Urro, comandante della nave militare, che si trovava a circa 25 miglia di distanza. “Oggi, alle prime luci dell’alba, siamo stati contattati dalla Capitaneria di porto di Palermo, l’ente che coordina le attività di ricerca e soccorso nell’area. Ci hanno chiesto l’intervento dell’elicottero: era stato segnalato un naufragio ed occorreva avere un quadro chiaro della situazione”. Ed il quadro, purtroppo, è stato subito chiarissimo.
“Il barcone – prosegue Urro – è affondato a circa mezzo miglio a sud dell’isola dei Conigli. Il pilota dell’elicottero, appena localizzate le persone in mare, ha cominciato a coordinare l’azione dei vari mezzi di soccorso, fornendo indicazioni precise sulla posizione dei naufraghi disseminati su un fronte ampio, di circa 500-600 metri”. In quell’area i soccorritori sono arrivati immediatamente. Centocinquantacinque i naufraghi tratti in salvo, e si teme che non ci siano più speranze di trovarne altri vivi. I superstiti vengono portati con le motovedette della Guardia costiera, della Gdf, dei Vigili del fuoco e dei Carabinieri sul molo Favarolo, dove vengono composti anche i corpi dei loro compagni morti: la faccia sembra ancora più stralunata, avvolti come sono in quelle coperte isotermiche lucide che sembrano di carta stagnola.
Sono sfiniti e i soccorritori li aiutano a scendere. Qualcuno li abbraccia, piangendo. C’è pianto e rabbia, sul molo Favarolo. “Non sappiamo più dove mettere i morti e i vivi. E’ un orrore”, dice il sindaco Giusi Nicolini, tra le lacrime, mentre vede arrivare e partire le motovedette cariche di cadaveri. “E’ una mattanza, una mattanza che bisogna fermare”, urla don Stefano Nastasi, il prete che invitò papa Francesco a Lampedusa, anche lui – come tutti – sul molo. “In tanti anni di lavoro non ho mai visto niente di simile”, ammette il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa, Pietro Bartolo, che pure è stato testimone di innumerevoli “viaggi della speranza” finiti in malora e che ha passato tutto il giorno a curare i superstiti. Sulla banchina del porto ci sono ambulanze, medici, infermieri: una task force coordinata dal commissario dell’Asp di Palermo, Antonio Candela, efficiente quanto, purtroppo, inutile. “Non ci servono ambulanze – allarga le braccia Bartolo – ma carri funebri”. Degli abitanti di Lampedusa, tutti quelli che possono cercano di dare una mano. Anche chi era in mare l’ha fatto. Come quei pescatori che, appena viste le fiamme che si levavano dal barcone, sono accorsi per primi sul posto. “Abbiamo tirato su 18 persone vive e 2 morti. Poi abbiamo visto arrivare le motovedette”, dice Francesco Colapinto, 24 anni, che era a bordo del peschereccio Angela C. ed ha ancora l’orrore stampato sul volto.