PALERMO – Io vado pazzo per il calcio, è una “malìa” che mi porto dietro da una vita; io passerei tutto il mio tempo, libero e non, guardando partite di calcio. Se poi in campo c’è la mia squadra del cuore, il Palermo, sono capace delle più umilianti sconcezze. Perfino di dimenticarmi dell’onomastico di mia moglie o della comunione di una delle mie nipotine. Altrimenti, che “malìa” sarebbe? Così ieri, alle 21 in punto, mi sono piazzato davanti alla tv, ho spedito la famiglia nell’altra stanza e davanti ad un altro televisore, perché dovevo guardare PSG.-Chelsea, primo atto dei quarti di Champions.
Avevo addosso una tensione particolare perché nel PSG giocano tre miei indimenticati pupilli: Sirigu, Cavani e, soprattutto, il mio idolo, Javier Pastore, detto “El Flaco”. Sapevo che quest’ultimo sarebbe partito dalla panchina, ma questo anzichè attenuare la mia ansia, l’accresceva: non vedevo l’ora che quel lungagnone di Laurent Blanc, l’allenatore del PSG, lo mandasse in campo. Intanto, mi consolavo con Sirigu e Cavani, che ho molto amato, e non solo perché hanno vestito ed onorato la maglia rosanero.
Uno a zero per il PSG, poi 1-1 e ad inizio ripresa 2-1… e io già da un bel pezzo mi agitavo manco fossi allo stadio, davanti al mio Palermo. Perché? Perché di veder giocare il mio pupillo, “El Flaco”, sembrava non esserci più speranza alcuna, specie dopo che Blanc aveva sostituito due giocatori e Pastore – che intanto smaniava in panchina – non lo aveva neanche degnato di uno sguardo. Se non che esiste un qualcosa, un Qualcuno, che presiede anche alle vicende del calcio e, quando occorre, interviene per rimettere a posto le cose, maltrattate da gente di poca fede e di scarso ingegno.
Succede che all’improvviso si “rompe” Ibrahimovic, l’insostituibile bomber del PSG e Blanc proprio non può più farne a meno: dentro Pastore. E io caccio un urlo: “Dai, Javier, fagli vedere chi sei!”. Però manca solo una manciata di minuti alla fine, ma io so che, se le stelle del suo immenso talento non stanno a guardare, possono bastare. Ed è proprio in quell’istante, a partita praticamente finita, nel quale riceve palla a due passi dalla linea di fondo, che mi ritorna in mente la sua strepitosa tripletta al Catania, un gol perfino di testa, che lo consacrò mio idolo per sempre.
Riceve palla ad un pelo dal fallo laterale e a tre metri circa dal fallo di fondo. Lo guardo col cuore in gola e sento che sta per compiere uno dei suoi affondi, con dribbling vari incorporati, uno di quelli che mi facevano impazzire quando vestiva la maglia rosanero (ne ricordo uno contro la Juve, al termine del quale spediva in gol Ilicic, uno che ha talento da vendere ma sapeva mostrarlo in pieno solo con Javier accanto ad ispirarlo). E lo vedo partire in dribbling su quel fazzoletto di terreno e invischiato in un nugolo di avversari che gli venivano addosso come cavallette. Fa fuori Azpilicueta con una finta, poi Lampard con un doppio passo e infine Willian. Se lo “beve” in un istante e quest’ultimo dribbling è così rapido e stordente che l’inglese sembra impietrito, ma intanto Javier è arrivato sulla linea di fondo a meno di dieci metri da Cech, il portiere ceco del Chelsea, mica un fesso qualunque. Ma Javier è ispirato, capita agli artisti ispirati di osare l’inosabile; sono momenti che passano e volano via, ma loro – solo loro – sanno come catturarli. E Javier non è solo un grande giocatore, è anche un artista e, come tale, non fa la cosa più facile, tipo crossare al centro quella palla nella speranza di imbeccare un compagno. No. Lui scocca un forte rasoterra. Ma Cech è lì, copre il primo palo, dove è diretto quel pallone. Nel bailamme della mia testa che segue istante per istante tutta la sequenza dell’azione di Pastore, c’è una sola certezza, che è anche un atto di fede. “Questo è gol”, mi dico e… subito dopo lo vedo con i miei, perché Cech (che ripeto non è un fesso qualunque) , il quale, per fermare quel pallone anzi che metterci un piede, come avrebbe fatto il grande Zoff, si butta, ma quando arriva a terra, quello è già passato.
Ed è il 3-1 e lo Stadio impazzisce e tutti i compagni, compresi i panchinari, compreso Blanc, che di solito lo fa marcire in panchina, gli sono addosso. Appena vien fuori da quel groviglio umano, la telecamera inquadra per un attimo i suoi occhi e sono occhi ebbri di felicità che, però, vagano tutt’intorno, in cerca di qualcosa. Di qualcuno. Che arriva di corsa: è Sirigu, che arriva da lontano e i due si ritrovano a metà campo e l’abbraccio che ne segue mi commuove, perché mi fa ripensare a certe giornate da sogno vissute allo stadio con quei due lì con indosso la maglia rosanero. E mi commuove ancora di più il pensiero che l’amicizia, quand’è vera, resiste a tutto e a tutti, perfino nel dorato e spesso illusorio mondo del calcio.