PALERMO – Quattro miliardi. Almeno. A tanto ha rinunciato il governo regionale con l’accordo sottoscritto con lo Stato a giugno. In cambio, ecco circa 520 milioni cash. Ma in cambio di cosa? A cosa ha effettivamente rinunciato Rosario Crocetta, ponendo la sua firma in calce al documento sottoscritto al Ministero dell’Economia alcune settimane fa?
La questione ieri è piombata in commissione bilancio. Dove i deputati hanno preteso la presentazione dell’elenco dei contenziosi ai quali l’esecutivo ha deciso di rinunciare. E non sono mancati gli attacchi. Dal capogruppo del Partito dei siciliani Roberto Di Mauro che ha parlato, riguardo a quell’accordo, di un “trucco e di un inganno” ai deputati di maggioranza, sono tante le voci critiche. “E’ un fatto gravissimo – ha attaccato ad esempio il parlamentare Pd Mario Alloro – che Crocetta con un atto monocratico e unilaterale, senza nemmeno coinvolgere l’Ars, abbia deciso di derogare alla specialità dell’autonomia siciliana, violando lo Statuto. Il presidente ha regalato centinaia di milioni di euro allo Stato, ma non solo. Quell’accordo consente al governo nazionale di cambiare i termini dell’intesa in qualsiasi momento. Inoltre – aggiunge – Crocetta si è impegnato a esitare un insieme di leggi, pur sapendo benissimo che il potere legislativo spetta al Parlamento e che il presidente della Regione siciliana non può legiferare nemmeno in casi di massima urgenza”. Sceglie la strada dell’ironia, invece, il parlamentare di Forza Italia Riccardo Savona: “L’accordo? Diciamo che l’unica cosa certa è che le entrate in finanziaria non sono certe”.
Ieri, però, come detto in commissione è arrivato il tanto atteso elenco dei ricorsi a cui lo Regione ha deciso di rinunciare. Un documento che, invece di chiarire i dubbi, ne ha aggiunti nuovi. Per la maggior parte di quelle cause, infatti, l’udienza era prevista tra pochi mesi. Tra ottobre e novembre, al massimo, il governo avrebbe avuto certamente un’idea più chiara del possibile destino di quei contenziosi. Cause avanzate quasi tutte dal governo Lombardo tra il 2012 e il 2013 e che, stando sempre a un prospetto presentato all’Ars, ammonterebbero a circa 3,9 miliardi di euro. Una cifra calcolata al ribasso, a dire il vero, visto che per alcuni di questi ricorsi non è possibile quantificare l’impatto economico. E, ironia della sorte, il governo ha deciso di rinunciare persino a un proprio ricorso. Deciso con una deliberazione di giunta del 18 febbraio scorso. In quattro mesi, insomma, Crocetta ha cambiato idea.
“Si tratta – ha precisato però anche ieri l’assessore all’Economia Roberto Agnello – solo di ricorsi inerenti la materia di finanza”. Nessuna cessione di beni immobiliari e nessuna rinuncia a cause di natura puramente amministrativa, spiega. Ma quali sono questi contenziosi?
Il 12 gennaio del 2012 Raffaele Lombardo si oppone allo Stato riguardo a due commi previsti nella legge di stabilità nazionale. Quei commi (il 10 e l’11) contengono disposizioni relative al patto di stabilità delle regioni a Statuto speciale. Un patto che il governo nazionale avrebbe siglato in maniera, sostanzialmente, unilateale. E per questo motivo l’esecutivo guidato dal leader dell’Mpa ha eccepito la legittimità costituzionale della norme “L’illegittimità della condotta dello Stato – si legge nelle delibera di giunta – risiede nel macato tentativo di raggiungere l’intesa, che richiede, in applicazione del prinicipio di leale cooperazione, che le parti abbiano dato luogo ad uno sforzo per dar vita all’intesa stessa, da realizzare e ricercare, laddove occorra, attraverso reiterate trattative volte a superare le divergenze”. La determinazione delle somme oggetto del patto, infatti, doveva essere il frutto di una interolocuzione in sede di Commissione partitetica. Non solo. Quella norma, secondo il governo Lombardo, attribuiva alla Sicilia funzioni fino a quel giorno svolte dallo Stato, “senza che vengano impinguate le risorse finanziarie per farvi fronte”. La legge statale, insomma, violerebbe lo Statuto siciliano e il principio di “leale collaborazione”.
Passa un mese. E il 23 febbraio del 2012 la giunta regionale dà mandato al presidente Lombardo di avanzare un nuovo ricorso. Anche in questo caso di fronte alla Corte costituzionale. Un’altra norma statale avrebbe violato quei principi. Si tratta del decreto legge del 6 dicembre del 2011. Con quel decreto, infatti, lo Stato aveva deciso di anticipare “in via sperimentale” al primo gennaio del 2012 l’istituzione dell’Imu. “Una imposta – scrive nella sua delibera la giunta – divenuta operativa in Sicilia senza che sia stato previsto alcunché in ordine alle modalità applicative della stessa”. Tra l’altro, scrive il governo regionale, “L’Imu è in parte sostitutiva di tributi di pacifica spettanza regionale, ivi compresi sanzioni e interessi”. Insomma, con l’entrata in vigore di quella imposta, lo Stato centrale si sarebbe “accaparrato” alcune entrate spettanti alla Regione. E ai Comuni che sarebbero stati “depauperati” dall’applicazione della norma. Somme che la Regione siciliana avrebbe dovuto “colmare” in un secondo momento. La giunta ricorda come lo Statuto sancisca un prinicipio chiaro: “Spettano alla Regione siciliana, oltre alle entrate tributarie da essa direttamente deliberate, tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate, ad eccezioni di quelle riservate allo Stato (entrate sui tabacchi, accise sulla produzione, lotto e lotterie a carattere nazionale)”. Ma non solo. Il ricorso riguarda anche la partecipazione al Fondo sanitario nazionale e la (de)regolamentazione sugli orari e sull’apertura degli esercizi commerciali. Anche in questo caso lo Stato sarebbe entrato in un campo che non gli spetta: di esclusiva competenza regionale. La rinuncia a questo ricorso è quantificata in 307 milioni di euro l’anno per i prossimi quattro anni (dal 2014 al 2017).
Il 21 maggio 2012, la giunta di Raffaele Lombardo decide di avanzare un nuovo ricorso. Contro un altro decreto-legge nazionale, del 24 genanaio dello stesso anno. Il motivo del ricorso è fondato sulla scelta dello Stato di sostituire il “sistema gestionale di tesoreria mista” col sistema gestionale di tesoreria unica”. Inoltre, quella norma prevedeva l’istituzione del “Tribunale delle imprese”, “ampliando – scrive il governo – in misura significativa la sfera di competenza delle attuali sezioni spcializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale”. Ma non solo. Il decreto disponeva anche di raddoppiare il cosiddetto “contributo unificato” per le spese di giustizia, col contestuale trasferimento allo Stato di 600 mila euro sia per il 2012 che per il 2013. Anche in questo caso, ovviamente, la Regione ha eccepito che le imposte riscosse nel territorio siciliano debbano restare in Sicilia, come sancito dall’articolo 36 dello Statuto. La portata di questo ricorso è stata quantificata in 116 milioni di euro l’anno per quattro anni. Circa mezzo miliardo. Solo per questo ricorso. La cifra che il governo ha accettato “cash” dallo Stato. Anche in questo caso l’udienza era vicina: si sarebbe celebrata il 22 ottobre del 2014.
Il ricorso economicamente più “pesante”, invece, è quello avanzato dal governo Lombardo con la delibera di giunta del 2 ottobre 2012 contro il decreto legge del 6 luglio di quell’anno. Sono stati “impugnati” in particolare gli articoli 4 e 16. Il primo articolo riguarda l’applicazione dei limiti agli affidamenti diretti anche per le società in house e per l’acquisto di beni e servizi oltre all’obbligo di scioglimento o privatizzazione delel società partecipate. Ma è l’altro articolo ad avere immediate ripercussioni dal punto di vista finanziario. Il decreto infatti “onera le Regioni a Statuto speciale di un altro ingente e continuativo concorso alla finanza pubblica”. “Non v’è dubbio – eccepì la giunta di Lombardo – che la disposizione operi una riserva allo Stato di entrate regionali in assenza delle condizioni che la legittimano”. Un decreto, tra l’altro, che destina allo Stato il compito persino di emenare le norme attuative, che dovrebbero spettare alla Regione. Un ricorso che avrebbe consentito al governo regionale di richiedere indietro 641 milioni per il 2014 e 673 milioni per gli anni che vanno dal 2015 al 2017: oltre 2,6 miliardi di euro. E anche qui, bastava aspettare un po’: le udienze erano previste per il 21 ottobre e per il 18 novembre del 2014.
Ma come dicevamo, il governo Crocetta ha fatto marcia indietro persino su un proprio ricorso. Di pochi mesi fa. Era il 18 febbraio quando la giunta decise di contestare la legittimità costituzionale della legge di stabilità del 2014 del governo Renzi. Cinque mesi fa, insomma, Crocetta decise di impugnare una ventina di commi della Finanziaria statale. Da quelli che riguardavano le imposte Irpef, Ires e Irap, a quelle che obbligavano la Regione a operare una “riduzione della spesa” di almeno 600 milioni nel 2015 e di 1,3 miliardi nel 2016 e nel 2017 oltre ad ulteriori risparmi. In particolare, però, gli aspetti economici “immediati” di quel ricorso sarebbero legati a un comma (il 499) del primo articolo della finanziaria, che prevede un aumento di 133 milioni per il 2014 della partecipazione della Sicilia alla finanza pubblica.
A questi ricorsi se ne aggiungono due, che non fanno altro che impugnare le norme di attuazione delle leggi già oggetto di ricorso. Ma la somma è sempre quella. Quattro miliardi. Almeno. A tanto ha rinunciato il governo Crocetta in cambio di circa mezzo miliardo “cash”. Mezzo miliardo che secondo molti deputati non sarebbe “reale” ma solo frutto di un accordo politico. Mezzo miliardo che non è stato certificato dalla Ragioneria generale né da una deliberazione di giunta. Mezzo miliardo che per tanti è “nullo”. Ma che adesso rappresenta il cuore della Finanziaria regionale.