C’era un campo di calcio imperfetto davanti alla mia finestra di adolescente. Era fatto di strada, di sogni e di macchine. Certi padri degli anni Ottanta erano severi. Non potevo scendere a giocare con gli altri ragazzi, non avevo il permesso di mio padre. Escogitai un modo per partecipare. Presi carta e penna e cominciai a scrivere la cronaca delle partite dei più fortunati di sotto. Forse è per questo che sono diventato giornalista e non (mi illudo) portiere della Nazionale.
Ogni volta la mia storia professionale la racconto così, in un infinito plagio di me stesso. L’ho scritta e la riscrivo così. Ma non credo di essere interessante io, non credo che la mia storia sia fantastica o degna di nota. Non è il narcisismo che mi spinge a scriverla. La scrivo solo perché penso che sia una visione comune a tanti, la vicenda intima e collettiva di tutti coloro che furono, sono e saranno tanto folli da condividere il mio mestiere. Io sono, cioè, sicuro che in loro – nei folli come me – ci sia una finestra aperta, spalancata, sul sole di un mattino dell’infanzia o dell’adolescenza. Chiedeteglielo e magari ve lo diranno. Vi diranno che furono le voci della strada e il sole riflesso sulle macchine a muoverli verso la deriva del racconto, la cronaca degli eventi, la spuma della vita degli altri.
Avverto – a orecchio – coraggio nella voce di Clelia Coppone. E di voci me ne intendo, per la finestra, sapete. Le vibrazioni di Clelia mi suonano disperate e sincere. Perchè di cento storie “verosimili”, come quella narrata nella lettera, è lastricato il sentiero dei giornalisti. Ed è un sentiero spesso amarissimo e precario che conosciamo tutti, perciò sarebbe ipocrita negare l’evidenza. Lo conosce l’ordine, lo conosce il sindacato, lo conoscono pubblicisti e professionisti, gli editori, i direttori, i fanti e santi. Poi, ovviamente, la parte in commedia prevede che le istituzioni deputate alla difesa della categoria facciano “ooooh” come i bambini della canzone, con un sovrappiù di dita nella marmellata. Altrimenti, le suddette istituzioni, dovrebbero confessare la propria perfetta inutilità. Siccome c’è un limite perfino alle cadute dalle nuvole, personalmente (e sottolineo l’avverbio) mi stupisce, per esempio, lo stupore di Alberto Cicero, segretario dell’Assostampa. Curiosa la frase: “Clelia Coppone non è nemmeno iscritta al sindacato. E lei stessa, d’altra parte, nella lettera ammette di esser venuta meno a certi doveri deontologici, non prendendo parte agli scioperi indetti da Assostampa”. Strano, nella mia ingenuità pensavo che il sindacato si occupasse soprattutto di salvaguardare i diritti giusti e generali espressi dalle identità singole che li reclamano, piuttosto che contabilizzare la quota degli eletti nel paradiso della tessera, per separarli dai reietti. Che ci sia un difettuccio di rappresentanza da parte degli organismi che si fanno fisicamente vivi, con i loro cavalieri della tavola rotonda, quando si tratta di raccattare voti e prebende congressuali? L’allusione allo sciopero, infine, è quasi tenera. Scioperare chi? Come? Un precario? Sarebbe come chiedere a un bambino armato di uno scudo di stagnola di andare alla carica contro i panzer. Quando i sindacalisti fanno oooooh…
Cosa ci rimane di una bella lettera che colpisce al cuore, nella sua trama di “verosimiglianza”? Personalmente (e risottolineo l’avverbio), mi viene da respirare a pieni polmoni, come davanti a quella finestra della mia adolescenza, luminosa e vociante. Il respiro di un attimo, una boccata appena. Tanto già lo so che il catrame è più forte.
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