PALERMO– Il corpo di Giuseppe La Barbera, morto con altri quattro compagni di sventura, nella strage di Casteldaccia, per l’ennesimo incidente sul lavoro, è custodito nel deposito del cimitero dei Rotoli a Palermo.
Il suo nome viene sussurrato con rispetto da chi presidia l’ingresso: “E’ lui”. Le vittime sono divise tra qui e l’ospedale ‘Cervello’. Il cielo della mattina è grigio. Ci sono gli operai in servizio al camposanto che vegliano la salma di un operaio: un ragazzo che tutti amano, perché si faceva in quattro per tutti, senza risparmiarsi.
La morte e l’eroismo
“Ma come si fa a morire così? – dice un componente del gruppetto -. Stamattina, forse, si è visto qualche parente, ma c’è il sequestro”. Giuseppe, secondo la cronaca fin qui disponibile, è morto da eroe, tentando di salvare i colleghi, stroncati dalle esalazioni mortali. “Un bravo ragazzo – commenta un altro -. Così ho letto. Una persona generosa. Non è facile, sa, anche dopo tanti anni di servizio”.
Sì, era un bravo ragazzo Giuseppe La Barbera. Quelli che lo hanno incontrato, da adolescente nella parrocchia di San Nicolò all’Albergheria non si danno pace. Lui era nato lì, a due passi da Ballarò. Sul quartiere è sceso un silenzio surreale. Non c’è musica, non c’è il solito chiasso colorato. Ballarò ha il cuore spezzato.
“Io lo conoscevo…”
“Io lo conosco da quando era bambino – dice un altro Giuseppe -. E’ sempre stato dolcissimo. Se c’era una signora che portava la spesa e non ce la faceva, lui si fermava col motore, per aiutare. Sempre impegnato era, sempre con l’argento vivo addosso, sempre che andava appresso al lavoro. Il cuore di Ballarò, oggi, è tutto per lui, per sua moglie e per i due bambini”. Tra poco sarebbe scoccato il quinto anniversario di matrimonio.
“Si sentiva responsabile di tutto – dice Annamaria, già catechista a San Nicolò – da ragazzino si occupava del negozio di bombole del nonno. Era allegro, Giuseppe, scatenato. Lo ricordiamo, io e mia sorella, che era pure catechista come me, con tanta tenerezza nel giorno della sua prima comunione”.
“Possiamo pregare”
“Possiamo pregare – dice don Luigi Costanzo, il parroco. Giuseppe voleva soltanto portare il pane a casa per sua moglie e per i suoi figli. So che è morto da eroe, da generoso, per salvare gli altri. Sì, possiamo pregare e stiamo pregando”. Possiamo pregare, mormora il parroco di San Nicolò. Ed è la dolcezza della memoria che resta. Tutto l’amore che non smette di fiorire, accanto a un dolore che non passerà mai.