Ergastolo per Riina e Provenzano. Questa la sentenza della corte d’Assise di Palermo. Non sarebbe, di per sé, una notizia nuova se non giungesse a 40 anni da quando avvennero i fatti. Parliamo della strage di viale Lazio, 10 dicembre 1969, in cui morirono 6 persone fra cui l’obiettivo: Michele Cavataio, detto ‘il cobra’. Fu il più alto punto della prima guerra di mafia e quell’azione fu decisiva per la scalata dei ‘corleonesi’ ai vertici di Cosa nostra. Fu quella l’occasione in cui Bernardo Provenzano si è guadagnato il soprannome che si è poi portato per tutta la vita: “u tratturi”.
La storia è ormai nota. Un comando composto da uomini dei ‘corleonsi’ e delle famiglie palermitane, si sono introdotti nell’edificio dove avevano sede gli affari di Cavataio. Vestiti da poliziotti sono entrati negli uffici e, per incuranza, è partito un primo colpo che ha scatenato l’inferno. Sei morti fra cui il custode degli uffici e anche uno dei membri del comando. Calogero Bagarella, fratello di Leoluca e cognato di Totò Riina. Il suo corpo non è mai stato trovato.
Binnu U tratturi. Le indagini sono state più volte chiuse a causa della mancanza di indizi. Fu il pentimento di Gaetano Grado a riaprirlo. Le sue rivelazioni, infatti, coincisero con quelle di un altro pentito di mafia, il catanese Antonino Calderone, che rivelò al giudice Falcone il particolare della ferocia dimostrata nell’occasione da Binnu. “Provenzano si fermò un attimo – ha raccontato Calderone – poi tirò Cavataio per i piedi da sotto il tavolo, avvertì una strana resistenza e si accorse che era vivo. Cavataio, pronto, gli sparò un colpo in faccia, o meglio, tentò di sparargli, dal momento che aveva finito le pallottole. Provenzano premette il grilletto della sua mitraglietta, che si inceppò, e non fu in grado di rimetterla a posto perchè era stato ferito alle dita. Lo colpì allora in testa con il calcio dell’arma e con i piedi per cercare di stordirlo e finalmente riuscì ad estrarre la pistola e ucciderlo”.
Nella strage morirono anche Francesco Tumminello, Salvatore Bevilacqua e Giovanni Domè, il custode degli uffici. La famiglia di quest’ultimo si è costituita parte civile.