PALERMO – “Sono scappato dalla mia vecchia terra perché non si diceva la verità, e nella mia nuova terra non starò zitto finché non sarà finito il mio momento”. Samson Olomu compirà quarant’anni tra pochi giorni ma si esprime come un anziano che ha visto il mondo; tra le mani ha due cellulari e un blocco di post-it arancione in cui annota qualsiasi cosa emerga da messaggi e telefonate. Vive in Italia da undici anni, ma la sua Nigeria non l’ha mai dimenticata, anzi, l’ha portata con sé: è il presidente della Nigeria Association Regione Sicilia, il cui cuore pulsante palermitano è il quartiere del mercato storico di Ballarò.
Olomu sta guidando una rivolta silenziosa tra le file della comunità, e i tredici arresti ai danni di un gruppo che fa capo alla confraternita Eiye hanno riacceso le luci della ribalta. Così negli ultimi mesi si è rafforzata la sinergia tra i membri “puliti” della comunità, quelli che lottano per stroncare i business della droga e della tratta delle donne, in pugno alle alleanze tra mafia siciliana e nigeriana.
Per la prima volta, la comunità nigeriana “alzerà la voce”: il 16 aprile alle ore 16, la Nigeria Association Regione Siciliana sfilerà in un corteo al grido di “No a tutte le mafie” e attraverserà il centro storico di Palermo, partendo dal Teatro Massimo. Al suo fianco ci sarà anche l’associazione Donne di Benin City, che lotta faccia a faccia con le organizzazioni mafiose per strappare le ragazze nigeriane dalla schiavitù sessuale che viene loro imposta. Un’associazione di sole donne, presieduta da Osas Egbon, che tiene traccia di ogni spostamento e bisogno delle connazionali in difficoltà tramite uno sportello al teatro Montevergini e si avvale di un’organizzazione capillare che sfrutta ogni nodo nella comunità nigeriana.
“Sono stata anch’io vittima della tratta – racconta – e so cosa significa fare una scelta perché è giusto, che è diverso dal fare una scelta perché c’è dietro un interesse. Qui, come in Nigeria, dietro c’è quasi sempre un interesse di altro tipo”.
Egbon conferma e ripercorre con orrore le modalità d’azione della criminalità organizzata nigeriana, le cui protagoniste più note sono le “maman” (protettrici che reclutano e poi assoggettano le ragazze): “Di solito le ragazze sono poco più che maggiorenni, anche se ci sono donne adulte coinvolte, e per tenerle sotto scacco le loro famiglie vengono minacciate anche e soprattutto se si trovano ancora in Nigeria, con la violenza. Questo, insieme alla mancanza di alternative sul territorio italiano e in particolare siciliano, porta le ragazze a tornare in strada anche dopo essere state aiutate dall’associazione a scappare chissà dove. Tra queste fughe e il fatto che spesso la criminalità si serve della confusione dei centri di accoglienza, i numeri della nostra comunità sono sempre incerti e materialmente non sappiamo mai chi siamo, né quanti”.
‘L’assenza’ di una pianificazione istituzionale che porti risultati è denunciata da Nino Rocca, membro dei centri “Pio La Torre” e “Impastato” e fautore del modello organizzativo di cui si servono, in totale autonomia, le Donne di Benin City. “Abbiamo invertito i ruoli: invece che guidare gli italiani, sono i nigeriani i protagonisti che ‘si servono’ di noi – spiega Rocca –. All’interno dell’associazione ci sono delle italiane che fanno da supporto, ma poi chi riesce davvero a conquistare la fiducia sono le donne nigeriane in persona. Allo sportello del Montevergini le vittime si sentono a casa perché parlano la stessa lingua e respirano la stessa cultura di chi le aiuta: esattamente il contrario di quello che, invece, hanno stabilito i protocolli nei vari centri di accoglienza – osserva – sempre gestiti da italiani, che spesso si limitano alla sola traduzione e quasi mai alla vera mediazione culturale”.
Olomu ha detto un no pesante nel dicembre 2018: come presidente ha deciso di azzerare l’organico dell’associazione dopo che vari membri avevano rifiutato di dichiararsi ufficialmente tali, fornendo i propri documenti alle autorità. Un gesto controcorrente che ha provocato una spaccatura tra concittadini e tracciato un confine tra generazioni e stili di vita.
“La mafia nigeriana non è certo una novità – afferma Olomu – però ho anche scoperto una cosa: quando è nata la vera antimafia in Sicilia, era come noi: piccola. Guardiamo dov’è arrivata oggi… Quindi anche noi nigeriani, che altro dovremmo fare se non alzare la testa dalla Sicilia e da tutto il mondo? Se vogliamo integrarci, lavorare, avere una bella vita, dobbiamo lanciare un messaggio: non siamo tutti mafiosi e pericolosi”. Concetto, questo, che i nigeriani hanno esposto senza peli sulla lingua in una conferenza stampa nella chiesa di San Giovanni Decollato l’8 aprile scorso, proprio a seguito degli arresti. “Voi siciliani siete tutti mafiosi?”, aveva esordito provocatoriamente Olomu, per rendere l’idea del luogo comune che attanaglia i connazionali.
Quando sono insieme, Egbon e Olomu si muovono come una sola persona: si scambiano i cellulari, parlano animatamente tra loro e contemporaneamente con gli interlocutori telefonici, commentano le strategie per sottrarre pezzi di comunità alle mafie e decidono le tappe della rinascita della Ballarò nigeriana. “Quando ho aperto l’associazione sono stata minacciata – dice Egbon – perché a detta di alcuni un’associazione di sole donne era una cosa inaudita; noi non ci siamo fermate, anzi abbiamo ribadito che nel nome c’è la parola ‘donne’ per un preciso motivo”. “Certo che ricevo minacce anch’io – le fa eco Olomu – ma ho superato dolore e paure, e ora ho paura solo di cosa non è giusto. È meglio non vivere, che vivere per fare e vedere certe cose”.