PALERMO – Uno “scellerato e melmoso patto con la mafia” o “una favoletta”? Accusa e difesa, e non potrebbe essere altrimenti, hanno una visione opposta. Oggi i giudici della Corte di Assise di appello entreranno in camera di consiglio. Passeranno alcuni giorni, non si sa quanti, prima di conoscere il verdetto. Il collegio presieduto da Angelo Pellino non si allontanerà dalle stanze allestite nel bunker del carcere Pagliarelli.
L’accusa
I sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbera, sul solco dei colleghi che hanno sostenuto l’accusa in primo grado, non hanno alcun dubbio: “Uomini delle istituzioni, apparati istituzionali deviati dello Stato, hanno intavolato una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista.
La celebrazione del presente giudizio ha ulteriormente comprovato l’esistenza di una verità inconfessabile, di una verità che è dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia che, tuttavia, non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali perché, come ha ricordato il Capo dello Stato nello corso delle commemorazioni dell’anniversario della strage di Capaci, o si sta contro la mafia o si è complici. Non ci sono alternative”.
La condanna di primo grado
Il 20 aprile 2018, con una sentenza storica, la Corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto aveva inflitto 28 anni di carcere al boss Leoluca Bagarella, 12 all’ex senatore Marcello Dell’Utri, agli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e al medico di Totò Riina Antonino Cinà, 8 al colonnello dei Carabinieri Giuseppe De Donno. Tutti erano stati ritenuti colpevoli di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
“Le stesse menti raffinatissime che avevano sostenuto la coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, avviando la trattativa, consentono a Riina di dire che lo Stato si è fatto sotto – hanno ricostruito i sostituti procuratori generali -. Ma questo induce ulteriore violenza.
Poi, una volta arrestati Riina e i fratelli Graviano”, le stesse persone “garantiscono una latitanza protetta per lo Bernardo Provenzano. Nel frattempo nasce Forza Italia. Ma i fatti rimasti accertati non possono essere nascosti e taciuti: le verità, anche scomode, devono essere raccontate”.
La difesa
Le difese hanno sempre contrattacato con fermezza. La trattativa Stato e mafia “è una favoletta inventata” e data “in pasto all’opinione pubblica” per “distrarla da storie poco commendevoli”. Il generale Mario Mori, che la trattativa avrebbe portato avanti, così ha sostenuto il suo legale, l’avvocato Basilio Milio, è “da anni vittima di un killeraggio mediatico” e di una “giurisdizione politico-mediatico che tace davanti all’indagine ‘mafia e appalti’. Nessun patto sporco e inconfessabile, ma “attività info-investigativa per la cattura di latitanti”, come “dice anche la sentenza di assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino”. “Altro che trattativa…”, ha ripetuto l’avvocato Basilio Milio.
L’assoluzione di Mannino
Ed ecco il cuore della questione: Calogero Mannino, il politico ed ex ministro che secondo l’accusa avrebbe dato il via alla trattativa tremendo di essere ucciso dalla mafia, è stato assolto con sentenza definitiva. L’input della trattativa stessa è venuto meno.
Se, come dice l’accusa, Subranni e Mori erano i traditori e Borsellino se n’era accorto perché mai il giudice pochi giorni li avrebbe incontrati “per proporre di fare le indagini? O il 10 e 11 luglio sarebbe andato in trasferta in elicottero con Subranni, o ancora li avrebbe difesi il 14 luglio 1992, pubblicamente, i traditori? E il 18 luglio, il giorno prima di morire, disse: ‘Non sarà la mafia a uccidermi ma i miei colleghi e altri a permettere che ciò possa accadere, ma non menziona mai i carabinieri”.
Leoluca Bagarella fu condannato a 28 anni di carcere, a 12 gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e l’ex medico fedelissimo di Totò Riina, Antonino Cinà. Otto anni la pena inflitta all’ex capitano del Ros Giuseppe De Donno.
La Corte – in primo grado – aveva inoltre dichiarato il “non doversi procedere” nei confronti del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca per intervenuta prescrizione visto il riconoscimento delle attenuanti previste per i collaboratori di giustizia. Anche Massimo Ciancimino era stato condannato a 8 anni per calunnia e concorso esterno ma poi, nel secondo grado, la sua posizione è stata stralciata perché il reato è andato prescritto.
I tempi lunghi della giustizia
Perché il tempo passa e la giustizia è lenta. C’è da dire che la faccenda si complica quando c’è da scrivere la storia di un intero Paese e studiare migliaia e migliaia di pagine di un fascicolo che si è ingrossato sempre di più, accogliendo anche improbabili testimoni e pentiti fuori tempo massimo.
L’indagine sulla trattativa Stato-mafia è approdata alla fase processuale nel luglio del 2012 quando gli atti – 120 faldoni via via aumentati di numero – furono trasmessi dalla Procura al giudice per le indagini preliminari Piergiorgio Morosini. Il rinvio a giudizio degli imputati fu deciso il 7 marzo 2013. Da quel terribile ’92 sono trascorsi ventinove anni.