Come fai a scattarlo, senza impazzire, il selfie del dolore, quando l’ombra gentile che hai accanto è un rimpianto troppo grande e il tuo cuore, per quanto grande, è ancora troppo piccolo?
“Ciao Fabri, tu sei il mio migliore amico e parlo al presente perché tu sei e sarai, sempre. Mentre cerco di scrivere questo pensiero nel quale voglio dirti tutto ciò che non sono riuscita a dirti, ma che avrei fatto successivamente… ascolto una delle tue canzoni preferite, sono seduta nel tuo posto preferito, sola, a riflettere e a pensare. E ti penso magari ricollegandoti a un profumo a un posto a una canzone o qualcosa che facevamo insieme, oppure ti penso e basta senza motivo apparente, all’improvviso, come se mi rendessi conto che c’è qualcuno che mi conosce meglio di me stessa. E ricordati che cercare e pensare sono due cose diverse, e io ti penso.. anche se non ti posso più cercare”. Lo ha scritto Sara, poetessa in erba, con parole che vibrano come foglie trafitte da un vento inaspettato, per il suo amico e compagno di giochi Fabrizio Ruffino, morto a sedici anni sulla strada di Mondello. Ha ragione lei. Se aguzzi la vista, oltre la cortina del buio, nessun luogo è lontano.
Di Fabrizio, come delle ombre gentili che l’hanno preceduto, resta lo struggimento del dopo che conserva in ogni particolare il suo minuscolo e imperdibile segmento d’infinito. Prima, quando la vita sembrava tanta e pareva che niente potesse strapparla alla sua quiete, tutto appariva scontato. Solo perché ormai è tardi, cominci, a ritroso, la caccia al tesoro e raccogli da terra ciò che era stato smarrito.
Fabri e le frasi che l’accompagnano, oltre una curva che lo nasconde. Le parole di Sara e di cento altri che hanno scavato nella sua bacheca, per andare a fondo di un lutto incomprensibile, ma certo. Questo ragazzo, non ancora uomo e non più bambino, col suo volto stupito davanti alla felicità in forma di moto. Il tazebao che i compagni di classe del ‘Cannizzaro’ gli hanno dedicato per esorcizzare l’abisso. La disperazione dei professori. Una famiglia stretta da nodi serratissimi e amorevoli, precipitata in un buio che non dà scampo. Un taccuino di sorrisi e appuntamenti lieti nel diario di Facebook. Poi, più nulla. L’assenza di segnale. La fine delle trasmissioni.
E vengono in mente altri ragazzi innamorati dell’estate, con le capigliature ribelli e spettinate, le facce serie sommerse in un telefonino, gli abbracci, i teli da mare, i primi tuffi, gli estremi baci, il materiale infiammabile dell’adolescenza che brucia, mentre si acchiappano vaghe nozioni di sé, mentre gli sguardi accendono il rogo di una confusione indomabile.
Non solo lui, non solo Fabrizio, nel novero di quelle ombre gentili sottratte troppo presto a una carezza. Il 2017 è l’anno della mattanza delle strade di Palermo. Quindici vittime. Dietro ogni nome, qualcuno che si è spento, nel deserto di chi rimane. L’elenco è tragicamente e continuamente aggiornato.
Giulia Mazzola, sei anni, morta in un tamponamento dalle parti del Policlinico. La persiana verde che scostava per affacciarsi. L’associazione ‘Le Balate’ che proteggeva i bimbi come lei con i libri e con i sogni. Le magliette bianche per commemorarla. Un quartiere con un vestito nero sull’anima. Un padre e una madre abbracciati, che si sostengono, per non cadere. Antonino Asciutto, 49 anni, stroncato in via Amedeo d’Aosta. Giuseppe Gambino, morto nella stessa zona, contento del suo lavoro al bancone di Ilardo, delizia di pezzi duri e gelati. Adesso, Fabrizio Ruffino, di cui ieri sono stati celebrati i funerali, e Sara che scrive, per legittima difesa: “L’unica cosa che riesco a dire è che non ho mai voluto bene a qualcuno come ho voluto bene a te, sappi che volando via ti sei portato un pezzo di me, un pezzo del mio cuore”.
C’è una domanda sbagliata che immancabilmente ricorre: poteva essere evitato? Una bestemmia che ha poco rispetto per la separazione, quando un destino si è ormai cristallizzato. Oltretutto, in presenza di informazioni labili non è lecito tranciare giudizi, meglio lasciare alle indagini il compito di appurare, caso per caso, cosa sia davvero accaduto.
La vera domanda è: potrà essere evitato? Si potrà ridurre il danno, domani? Questo è l’unico punto che ha, forse, un senso. Potremo fare a meno della prossima notizia del disastro? L’ineluttabile, in quanto tale, non conosce variazioni. Ma non è solo fatalità.
E devono saperlo i ragazzi che vanno incontro all’estate e che hanno pianto altri ragazzi che una estate non l’avranno mai più. Bastano un momento di smemoratezza alla guida, un bicchiere in più, un’occhiata, una corsa senza freni, un’assenza, una leggerezza. Così tutto si compie, nel sentiero da cui non si torna.
E devono ricordarlo questi meravigliosi ragazzi che, nelle loro lacrime, rispecchiano una profonda bellezza. Nessun luogo è lontano, come ha scritto un poeta. Ci saranno compleanni e candeline, cuori che battono fino alla casa distante di un’amica, perché ne vale la pena, piume colorate, anelli e doni senza lustrini. Ci sarà la gioia di stare ancora insieme. Ci saranno padri, madri e figli. Il selfie del dolore, prima o poi, lo scattano tutti. Ma è saggezza, oltre che fortuna, riuscire a rimandarlo il più possibile, vivendo il tempo delle ali e del volo.