PALERMO – Novantacinque pagine per dire che nelle imprese dei fratelli Massimo, Piero e Olimpia Niceta non sono stati investiti soldi sporchi. Ci sono gravi ombre nel passato del padre, Mario, oggi deceduto, ma non c’è prova che la ricchezza da lui accumulata illecitamente sia servita ai figli per gli investimenti nei negozi di abbigliamento e nel settore immobiliare. Al contrario, c’è la conferma che la famiglia Niceta ha avuto a disposizione importanti risorse economiche lecite.
A metà degli anni Novanta falliscono la Cater Bond e la Parabancaria di Mario Niceta. Erano un’impresa di calcestruzzo e una società immobiliare. Secondo il collegio delle misure di prevenzione, ci sono i presupposti per considerare, fino a quella data, Niceta padre “socialmente pericoloso”. Viene definito “appartenente anche se non partecipe” degli interessi mafiosi. Averebbe dato il suo contributo “all’occultamento di partecipazioni societarie nella Cater Bond da parte di soggetti mafiosi di calibro, nel conseguente riciclaggio del denaro investito in società e nella successiva gestione di quell’impresa”. In particolare, Niceta senior avrebbe goduto dei favori di Giuseppe Guttadauro, capomafia di Brancaccio, che imponeva l’acquisto di cemento dalla Cater Bond.
C’è un prima e un dopo, però. Dalla lunga e complessa perizia disposta dal Tribunale presieduto da Raffaele Malizia, giudice estensore Vincenzo Liotta, “di certo nessuna indicazione è fornita sull’esercizio di attività di impresa con modalità mafiose al di fuori di quelle della Cater Bond, Né si rinvengono accenni anche generici al possibile finanziamento delle altre attività imprenditoriali riferibili a Mario Niceta con risorse provenienti da Cosa nostra”.
I racconti dei collaboratori di giustizia si riferiscono all’attività di Niceta fino agli anni Novanta. È stato il cugino Angelo Niceta con le sue dichiarazioni ad estendere il quadro investigativo fino ai negozi di abbigliamento. Seppure credibili le sue dichiarazioni “non bastano a dimostrare l’effettivo investimento di risorse illecite”.
Così come non basta dimostrare “la comprovata persistenza dei legami” fra i figli di Niceta e la famiglia Guttadauro, in particolare con Francesco Guttadauro, nipote di Matteo Messina Denaro e detenuto per mafia, per dimostrare “la permanenza di rapporti economico-finanziari dei quali non è stata rinvenuta alcuna traccia”. Si parla di “contiguità con la famiglia Guttadauro, il cui appoggio, protezione, intermediazione i Niceta hanno continuato a cercare e chiedere anche in tempi recenti (quando i provvedimenti nei confronti di Filippo e Giuseppe non potevano lasciare ignorare il loro spiccato profilo delinquenziale mafioso)”, ma viene esclusa la pericolosità sociale dei fratelli perché non è stato dimostrato “uno specifico contributo in favore dell’attività del sodalizio” mafioso.
Scrivono, infatti, i giudici che “non emergono fuoriuscite di denaro in favore di persone estranei al nucleo familiare”. Ci sono stati rapporti personali con i mafiosi Guttadauro, ma fuori dagli interessi economici. Probabilmente i Niceta chiesero aiuto quando gli fu avanzata una richiesta di pizzo per l’apertura del negozio di corso Camillo Finocchiaro Aprile, ma le imprese dei figli di Niceta sono state finanziate con soldi puliti.
Sono i soldi del padre, Mario Niceta, che aveva accumulato una fortuna, indipendentemente degli affari con la Cater Bond. I disinvestimenti del patrimonio immobiliare, tra il 1985 e il 1997, ammontano e sette miliardi di vecchie lire. Ed è con questi soldi che sono nate le nuove attività. Il risultato è che i Niceta non sono socialmente pericolosi e gli va restituito il patrimonio.
C’è un passaggio nella motivazione dei giudici che sgombra il campo dal sospetto che quella sui Niceta sia stata un’indagine patrimoniale che poteva essere evitata. L’ipotesi sostenuta dalla Procura che i soldi sporchi del padre fossero finiti ai figli non era “peregrina”. Le indagini, insomma, andavano fatte.
I Niceta tornano in possesso dei beni. I quindici negozi di abbigliamento sono ormai chiusi e le società che li gestivano hanno il valore di una scatola vuota. Restano gli immobili, le polizze assicurative e i depositi bancari, che fanno parte di un patrimonio stimato, al momento del sequestro nel 2013, in 50 milioni di euro.