PALERMO – “Non è possibile affermare, ora per allora ed oltre ogni ragionevole dubbio, che il mutamento di regime carcerario per quei diciotto soggetti ridotti, peraltro, nel giro di pochi mesi, a seguito di una nuova applicazione, a soli undici, abbia avuto un rilievo significativo per il sodalizio mafioso, tale da potersi qualificare come una concessione illogica ed ingiustificata dello Stato a Cosa Nostra, frutto di un patto scellerato avvenuto un anno prima e non, piuttosto, come una scelta politico amministrativa condizionata da una pluralità di eventi… dunque, indimostrato in fatto, che il Mannino abbia operato pressioni sul Di Maggio per la revoca del regime del carcere duro sui detenuti per il reato di cui all’art. 416 bis la tesi accusatoria che vuole Calogero Mannino come input, garante, e veicolatore alle autorità statali della minaccia contenuta nella trattativa, cade in via definitiva”.
Ecco perché Calogero Mannino è stato assolto nel processo di appello sulla trattativa Stato-mafia. I giudici di Palermo hanno depositato le motivazioni della sentenza che ha confermato l’assoluzione di primo grado dell’ex ministro democristiano. Oltre mille e 100 pagine in cui il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini, spiega perché Mannino è innocente. Viene smontata la tesi accusatoria che l’ex ministro diede il via alla Trattativa, incaricando gli ufficiali del Ros, per evitare di essere ammazzato. Hanno avuto ragione gli avvocati della difesa, Carlo Federico Grosso (oggi deceduto), Grazia Volo e Marcello Montalbano.
I giudici riconoscono a Mannino il suo impegnano antimafia: “E’ pacifico che la reazione violenta decisa da Totò Riina, all’azione posta progressivamente in essere dallo Stato contro Cosa Nostra mediante la legislazione antimafia del 1991 e le gravi condanne inflitte all’esito del primo maxi processo, confermate dalla Cassazione il 30 gennaio 1992 – scrivono i giudici – fu deliberata dal capo corleonese in prossimità della suddetta decisione, alla fine del 1991, in due distinte riunioni, quella provinciale e quella regionale della Cupola di Cosa Nostra – dunque almeno sei mesi prima del contatto intercorso tra Mori, De Donno e Vito Ciancimino – e con evidenti finalità non ricattatorie, ma di vendetta reattiva: contro gli amici che avevano tradito (‘Salvo Lima’), contro i magistrati che avevano contribuito alla lotta contro la mafia, decapitandone in grande moltitudine capi e soldati, con la definitività della sentenza del primo maxi processo, nonché contro altri soggetti istituzionali che si erano battuti contro ‘cosa nostra’ sul fronte politico, amministrativo, legislativo, tra cui non si può escludere, alla luce di quanto prima esposto, che rientrasse anche il Ministro Mannino”.
Ed ancora: “La strategia avviata con l’omicidio Lima e certamente proseguita con la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio non era certamente quella finalizzata ad ottenere dallo Stato concessioni o ad indurlo a trattare. Si legga, a tal riguardo, uno stralcio della sentenza della Corte d’Assise di Firenze resa in data 6.6.1998 che ha escluso il vincolo della continuazione tra gli omicidi del 1992 e gli attentati a Firenze e Roma negli anni 1993 – 1994 (le cosiddette stragi in continente)”.
“A tale condivisa valutazione logica deve aggiungersi che, comunque, ‘l’omicidio Lima’ e la strage di Capaci non possono in alcun modo integrare le minacce di cui all’art. 338 codice penale alla cui trasmissione allo Stato, secondo la contestazione della rubrica, avrebbero variamente concorso diversi esponenti delle istituzioni, giacché a quell’epoca il contatto – finalizzato, secondo l’accusa, ad una trattativa con ‘cosa nostra’ – tra Mario Mori, Giuseppe De Donno e Ciancimino non si era ancora compiutamente realizzato e, dunque, non si era certamente creato, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, il presupposto per l’eventuale veicolazione, attraverso soggetti istituzionali, concorrenti esterni alla minaccia, delle proposte contenute nel cosiddetto papello dietro il ricatto di ulteriori stragi”.
La Corte sostiene che “in tale contesto, poi, non è stato affatto dimostrato che il Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo maxi processo) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa Nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”.
A proposito del ruolo di Mannino: “Pacifiche e pubbliche, poi, le minacce subite dal ministro Mannino, il suo timore e l’attivazione di tutte le forze di pubblica sicurezza e di intelligence dello Stato italiano a tutela della sua persona, ivi compreso il Ros ed i servizi segreti, cui lo stesso ebbe pure a rivolgersi, ciò non di meno è rimasto parimenti indimostrato che tali contatti, per nulla occulti, fossero finalizzati all’avvio di una trattativa con Cosa Nostra. Del resto, se davvero, come da contestazione, l’imputato fosse stato così vicino a Cosa Nostra da essere un suo stabile interlocutore politico, costui non avrebbe di certo avuto bisogno, per proporle un patto per sé ‘salvifico’, né dei militari del Ros né del suo acerrimo nemico politico, Vito Ciancimino, ben potendo presentarsi egli stesso ai vertici del sodalizio come prestigioso mediatore (all’epoca era ancora Ministro) per sé stesso e per lo Stato italiano. L’ipotesi del suo coinvolgimento nella fattispecie di cui in rubrica non solo, dunque, non è riscontrata, ma si appalesa, ancora una volta, illogica”.
Ma è la stessa Trattativa come patto sporco con la mafia, così l’ha definita l’accusa al processo a Mannino ma anche nel troncone principale che si è chiuso con condanne pesantissime, che viene picconata: “Tutte le fonti, sia quelle dirette (Mori, De Donno), sia quelle indirette e provenienti, peraltro, non solo da personalità istituzionali di pacifica onestà ed integrità morale, ma viepiù caratterizzate tutte dall’essere unite, in quel particolare periodo storico, nella lotta – concretizzatasi, ciascuna per le proprie competenze, nella specifica attività parlamentare, di governo, ministeriale – alla mafia, sono risultate convergenti nel descrivere l’iniziativa degli ufficiali del Ros come segue: si sarebbe trattato di un’operazione info-investigativa di polizia giudiziaria, comunicata da Mori e De Donno al loro diretto superiore gerarchico che allora era il generale Subranni (Comandante del Ros dal 1990 al 1993), realizzata attraverso la promessa di benefici personali al Ciancimino (per mantenere la quale era stata chiesta quella ‘copertura politica’ intesa nel senso di assecondare, ove possibile, le richieste nell’esclusivo interesse del Ciancimino stesso, prossimo alla carcerazione – così come pacificamente inteso dalla teste Ferraro, dal teste Martelli e dallo stesso Presidente Violante). Tale operazione si proponeva mediante la sollecitazione ad un’attività di infiltrazione in ‘cosa nostra’ del predetto Ciancimino, che ne avrebbe dovuto contattare i capi, il precipuo fine della cattura di Totò Riina, interrompendo, così, la stagione delle stragi. Nessuna delle fonti dichiarative sentite, nel descrivere i contatti avviati dal colonnello Mori per favorire la collaborazione del Ciancimino, ha fatto invece riferimento – ciò che qui in via esclusiva interessa – ad un preesistente ‘mandato’ politico (quello asseritamente costituito dal Mannino, secondo la pubblica accusa) che gli alti ufficiali avrebbero posto a giustificazione di quell’operazione ma, al contrario, hanno tutte univocamente indicato una richiesta di sostegno ‘politico’ ex post rispetto all’iniziativa e consistente nel non ostacolare quell’operazione, eventualmente assecondando, ove possibile, le richieste di benefici personali per il Ciancimino (il passaporto, la restituzione dei beni in sequestro, etc.), dietro l’assicurazione della cattura dei latitanti”.
Al contrario un tale appoggio non fu dato da Martelli “che si adoperò, anzi, in senso contrario, per fare in modo che il Ciancimino non ottenesse il passaporto e che stigmatizzò l’operato del Ros, che, more solito ed in completa autonomia, non aveva coordinato la sua azione con la Dia; né dal presidente Violante, che rifiutò qualsiasi colloquio informale col Ciancimino, informando della richiesta di Mori il vice presidente della Commissione Antimafia ed invitando il dichiarante ad un’audizione formale, innanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia”.
Un passaggio più di altri merita di essere citato: “Del resto, appare altamente probabile che gli alti ufficiali del Ros avessero informato di avere preso tale iniziativa anche il giudice Borsellino – che con Mori e De Donno aveva all’epoca un rapporto di assoluta ed esclusiva fiducia, tanto da chiedere di vederli, riservatamente, nei locali della caserma dei carabinieri e non in quelli della Procura, per parlare del rapporto ‘mafia – appalti’, nel luglio 1992, poco prima della sua uccisione – giacché quando il giudice ne era stato informato dalla dottoressa Ferraro, non ne era rimasto affatto stupito né contrariato, rispondendo alla dirigente degli Affari penali del ministero che andava bene e che se ne sarebbe occupato lui. Se, dunque, si trattava di iniziativa già discussa dagli alti ufficiali del Ros col giudice o, comunque, prossima all’asseverazione del Borsellino che già ne aveva preso atto senza stupirsene, a fine giugno 1992, parlando con la Ferraro, l’ipotesi che l’operato di Mori e De Donno celasse l’istigazione del Mannino per avere salva la vita, diventa, in tale ricostruito contesto, una remota illazione, priva di qualsivoglia giustificazione logica”.
Quella degli ufficiali dei carabinieri non fu, dunque, una Trattativa sotto banco: “Giova, da ultimo, sottolineare che l’avvio di tale iniziativa è stato comunicato – e non occultato, come teorizzato dalla pubblica accusa – in tempo reale dal De Donno e dal Mori al loro diretto superiore gerarchico, il comandante Subranni, a tutte le personalità istituzionali sopra esaminate ed anche all’autorità giudiziaria, tramite il contatto della Ferraro col giudice Borsellino; che all’esito del percorso avviato, dopo l’arresto del Ciancimino, anche il nuovo procuratore della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli, fu accompagnato dagli stessi Mori e De Donno – che avevano proseguito, ottenendone l’autorizzazione dalla direzione Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, i colloqui info investigativi col Ciancimino anche quando costui era entrato in carcere, a decorrere dal 20 gennaio 1993 – nel corso dei successivi interrogatori del Ciancimino in quel tentativo, poi abortito, di una collaborazione formale del predetto, durato, tuttavia, oltre un anno”.
Il commento: Picconata la Trattativa, due verità inconciliabili