Adesso per il comune di Palermo la strada è tutta in salita. La sentenza con cui il Tribunale ha condannato Palazzo delle Aquile a pagare 51 milioni di euro per il fallimento dell’Amia, la partecipata dalle cui ceneri è nata la Rap, rischia di essere il colpo di grazia per il capoluogo siciliano. In cassa ci sono infatti appena 10 milioni dei 51 necessari e il problema è che all’appello ne mancavano già 80, senza i quali chiudere il bilancio di previsione 2021 è praticamente impossibile.
Il pronunciamento della quinta sezione civile del Tribunale di Palermo, specializzata in materia d’impresa, è arrivato come un fulmine a ciel sereno ma rischia di essere dirompente anche per altre cause ancora pendenti; il timore, dalle parti di piazza Pretoria, è che possa scatenarsi un effetto domino non solo sui processi in corso per il fallimento di Gesip, ma anche su eventuali futuri contenziosi con altre partecipate.
Il punto è che i giudici hanno applicato, per la prima volta nel caso di un Comune e di una sua società, l’articolo 2497 del codice civile che punisce chi esercita un’attività di direzione e coordinamento che porta poi a un fallimento; in pratica, chi sbaglia ne paga le conseguenze. Un principio che solitamente è limitato al mondo delle imprese, ma che i giudici hanno ritenuto di poter far valere pure nel caso Amia: anche se Palazzo delle Aquile non è un ente pubblico economico, detiene “partecipazioni societarie per svolgere una determinata attività con criteri di economicità”, come nel caso di Amia che era a totale capitale pubblico, svolgeva il servizio di raccolta rifiuti in forza di un contratto e subiva il controllo analogo del socio unico. “Il requisito della direzione e coordinamento deve ritenersi in re ipsa”, si legge nella sentenza.
In poche parole, visto che il Comune di Palermo non ha onorato i propri debiti nei confronti di Amia ma anzi l’ha obbligata a cedere i crediti “per un importo incongruo”, ha arrecato un danno alla sua azienda abusando dei poteri di direzione e coordinamento previsti dal Codice civile, da qui la condanna a risarcire 51 milioni. Un principio che potrebbe essere applicato anche alle cause pendenti con la curatela fallimentare della Gesip, peraltro trattate dalla stessa sezione del Tribunale e che valgono decine di milioni, o a quelle future che potrebbero sorgere con altre società come Amat che ha già annunciato di voler impugnare il taglio del 10% delle fatture imposto da Palazzo delle Aquile a parità di servizi.
In questo momento, il Comune in cassa ha appena 10 milioni di euro e quindi ne mancano all’appello ben 41: l’allarme a piazza Pretoria è già scattato, ma il punto è che le casse sono più asciutte di un deserto e non si sa dove trovare i soldi. Perché se è vero che si tratta solo di un primo grado, e che quindi l’amministrazione potrà ricorrere in appello, è altrettanto vero che la sentenza è esecutiva e che per legge il Comune deve già trovare i soldi, sperando magari in una temporanea sospensione del pagamento.
Un terremoto che rischia di avere conseguenze anche politiche. “La sentenza è l’ennesima tegola che cade sulla testa dell’amministrazione comunale – dice il coordinamento provinciale di Italia Viva – Il bilancio era già in squilibrio strutturale e questo pronunciamento non fa che aggravare una situazione già critica, mettendo letteralmente in ginocchio i conti dell’ente che non ha le somme per farvi fronte. Quando Italia Viva ha invocato un ‘governo dei migliori’ che mettesse insieme forze diverse per il bene della città, ha ricevuto solo sberleffi da parte di chi sembra vivere su un altro pianeta: la realtà è che Palermo è in enorme difficoltà e ha bisogno di uno sforzo collettivo che vada oltre gli steccati per evitare il fallimento. Italia Viva continuerà comunque a lavorare in consiglio comunale nell’interesse della città”.