Caro Luis Enrique, chiamato anche Lucho, da chi ti vuole bene, vieni a Palermo e ti daremo tutto. Un caffè e il nostro cuore. Ti porteremo a Mondello, a Isola delle Femmine, dove vuoi. E ti diremo: ora che stiamo guardando la stessa parte di mare, possiamo consideraci fratelli di approdo. Anche noi ti vogliamo bene.
Caro Lucho, il caffè offerto, per un palermitano, non è una semplice consumazione al bar. Si tratta di un rito familiare (in senso buono), di accettazione. Se prendiamo un caffè insieme, vuol dire che siamo insieme, perché beviamo da tazzine gemelle e solitamente arroventate, condividendo gusto e bruciature. Si tratta di dolore e amore, strade che qui conosciamo benissimo.
Caro Lucho, le conosci benissimo anche tu, che hai dovuto dire addio a tua figlia Xana, rapita a soli nove anni. Eppure, non hai maledetto il destino, né gli dei. Ci hai guardato con le rughe sulla faccia. E le tue rughe dicevano: avete visto? Il dolore abita in tutte le case. Non c’è ricchezza che possa scansarlo. Noi possiamo soltanto camminare e tenerci per mano. Vamonos.
E anche le parole nobili con cui hai salutato la vittoria dell’Italia, ai danni della tua fantastica Spagna, rivelano un animo nobile. Nessuna recriminazione e tanti auguri.
Ora, noi non vogliamo mettere insieme le due cose. Il tuo dolore è un fatto privato a cui offrire una fraterna ma impotente vicinanza. Il tuo amore per la pelota è il mestiere di un bambino che non si è reso conto di essere diventato grande e va avanti a colpi di tacco, lavagna e innocenza.
Ma tutto ti descrive come un uomo buono, serio e perbene. E ce ne fossero come te, Luis Enrique. Per questo, caro Lucho, ti aspettiamo a Palermo quando vorrai e se vorrai. Ti verremo incontro a braccia aperte, per giocare una partitella sulla spiaggia di Mondello, perché siamo sicuri che non hai perso l’istinto del palleggiatore da Super Santos. Ci sarà tutto quel mare a guardarci. E ti daremo il cuore, ma a te sembrerà soltanto che avremo detto: “Lucio, amunì, pigghiamuni u cafè”.