Era la sera dell’8 dicembre 1980 quando John Lennon rientrando a casa venne assassinato da Mark David Chapman. Lo squilibrato che voleva diventare famoso gli sparò contro cinque colpi di pistola. Poche ora prima si era fatto fare un autografo. Lennon, 40 anni compiuti da poco, morì in ospedale a New York. La leggenda vuole che quella sera, quando lo scrittore di canzoni di maggior successo di tutti i tempi arrivò in sala operatoria, in ospedale la filodiffusione stesse trasmettendo una canzone dei Beatles.
Quarant’anni sono passati dall’insensata morte di Lennon, primo martire della musica leggera. Quarant’anni in cui il genio carismatico del fondatore dei Beatles avrebbe potuto dare chissà quanto al mondo attraverso la sua musica e la sua straordinaria forza di comunicatore, quella che lo vide abbracciare cause importanti come il pacifismo.
In questi quarant’anni, però, la musica di John Winston Ono Lennon è rimasta, immortale, colonna sonora della vita di un pianeta. E a quarant’anni dalla sua scomparsa, ecco un’ideale playlist di 40 canzoni, incise coi Beatles o da solista, per godere del genio del ragazzo di Liverpool.
Help! È bene iniziare dalle basi. E questa hit del 1965 è una base che regge tutto. Lennon la pensò come una ballata, poi venne accelerata. Era un testo autobiografico, in cui all’apice della Beatlemania, il ventiquattrenne John, dal tetto del mondo dove si era ritrovato in un soffio, chiedeva aiuto, spaesato e insicuro. Ma nessuno capì che parlava di se stesso. Immensa e immortale.
Strawberry fields forever. Si può dire che è la più grande canzone pop di sempre? Di certo chi lo fa non compie un azzardo. Lennon la pensò in Spagna mentre girava un film. La fece sentire alla chitarra al produttore George Martin che rimase estasiato. I Beatles ne incisero varie versioni (tutte belle), alla fine ne furono cucite insieme due in due tonalità diverse. Strawberry fields, luogo dell’infanzia di Lennon a Liverpool, diventa il non-luogo dell’immaginazione, dove niente è reale.
Jealous guy. Ballata un po’ ruffiana ma fortunatissima. E assai gradevole, pur con tutto il miele cosparso a iosa dal produttore Phil Spector. Fu una delle canzoni figlie del ritiro dei Beatles in India appresso al santone da cui poi Lennon prese bruscamente le distanze. Il testo originale parlava di Rishikeh ma dopo lo scioglimento dei Beatles, John compose parole nuove trasformandola in love song.
Happy Xmas (war is over) Giacché ci siamo, il Natale è alle porte. E questa resta un evergreen, uno dei più grandi successi della carriera solista dell’ex Beatle. Uscì in America nel 1971, registrata a New York, in Europa l’anno dopo (all’epoca poteva accadere). Firmata da Lennon e signora (che canta il ritornello). La voce di John qui è semplicemente adorabile.
Instant Karma. Lennon era maestro nel comporre inni. Gli riusciva naturale, come al socio riusciva facile sfornare melodie. Sarà stato anche perché amava passare tanto tempo davanti alla tv e aveva una passione per le pubblicità. Gli venivano fuori quei ritornelli da inno (da All you need is love a Give peace a chance) che erano perfetti. Proprio come questo: “We all shine on like the moon and the stars and the sun”.
Don’t let me down. Bisogna proprio essere i Beatles perché una canzone come questa non sia una delle più grandi, amate e conosciute hit di una band. Don’t let me down, canzone d’amore disperata e potentissima, finì addirittura sul lato B di un 45 giri. È una delle ultime grandi prove canore di Lennon (poi la voce si andrà guastando). Leggendaria la versione live sul tetto.
If I fell. Ballata dolcissima, con testo adolescenziale, finì nel film A hard day’s night del 1964. Farina del sacco di Lennon, John la canta in coppia col socio McCartney che come sempre fa la parte alta. Un concentrato di primi anni Sessanta.
I want you (she’s so heavy). Senza dubbio alcuno, il più grande pezzo rock dei Beatles. Da imporne l’ascolto a quelli che “i Beatles? No, preferisco il rock”. Potentissime le chitarre di Lennon e Harrison, semplicemente sontuoso il basso di McCartney, robusta come sempre la batteria del metronomo umano Ringo Starr. Un pezzo, inserito in Abbey road, che finisce con un muro di rumore che si interrompe bruscamente.
I want to hold your hand. Scritta a quattro mani col socio Paul. Ma è la voce di Lennon che giganteggia quando i due cantano insieme. È l’inno della Beatlemania, su queste note i quattro di Liverpool si presero l’America.
Working class hero. Contenuta nel meraviglioso primo album solista di Lennon, questa canzone divenne celeberrima. Solo voce e chitarra (e pose da duro) per un pezzo di storia, rifatto anni dopo dai Greenday.
Woman. L’omaggio all’altra metà del cielo era il pezzo forte dell’album che segnò il ritorno alla musica di Lennon nel 1980, dopo cinque anni di silenzio. Chapman lo uccise poco dopo. Questa canzone ha retto meravigliosamente al tempo.
Ticket to ride. Questo gioiello che ha fatto sperticare di lodi schiere di musicologi finì nel film Help! Del 1965. Lennon disse che era tutta sua, McCartney sostiene invece di avere dato un contributo alla sua nascita. Sta di fatto che la canzone è monumentale, la voce di Lennon ipnotizza con il suo timbro unico, questi sono i Beatles primo periodo al top.
Imagine. Vorreste forse una compilation di canzoni di Lennon senza IL pezzo di Lennon? Forse, anzi certamente, non il più bello. Di sicuro non il più sorprendente dal punto di vista musicale. Ma Imagine è un cult, un inno, un retaggio universale. Votata come più grande canzone del secolo, la più celebre composizione solista di Lennon seduce oggi come cinquant’anni fa.
Come together. Come quelle magnifiche cinquantenni che fanno girare la testa anche ai ragazzini, questa canzone non invecchia mai. Brano di inizio di Abbey road, l’ultimo disco suonato insieme dai Beatles, ha una ritmica da brivido firmata McCartney-Starr e un sound che resiste al tempo come poche cose.
Oh Yoko. Questa canzone contenuta nell’album Imagine del 1971 è una delle cose più gioiose mai registrate da Lennon. Quell’armonica tutta allegria è il suono dell’amore devoto e quasi bambino per la sua, poco amata dai fan, compagna di vita. Va scoperta.
Rain. Altra perla che finì relegata sul B-Side di un 45 giri, nel 1966. Un Lennon di eccelsa qualità, accompagnato da una memorabile accoppiata di basso e batteria. E nel finale la chicca del nastro che suona al contrario, un’altra straordinaria innovazione dei Beatles.
Beautiful boy. È difficile non emozionarsi quando Lennon canta “non vedo ‘ora di vederti crescere”, parlando al figlio di cinque anni, visto che sappiamo che pochi mesi dopo aver registrato quella canzone John fu ucciso, a quarant’anni. Il brano dolcissimo del 1980 contiene anche la più famosa frase di una canzone di Lennon: “La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri piani”. Già.
A day in the life. Molti la considerano la più grande canzone dei Beatles. E chi scrive non si sente di dar loro torto. È un monumento della musica ed è una perfetta immagine del connubio Lennon-McCartney. Lo scheletro della canzone, struggente, è di John. Paul ci mette la parte di mezzo, un quadretto di quotidianità, con quel passaggio tutto vocalizzi che porta su fino all’empireo. E poi l’orchestra impazzita che suona tutte le note dal mi basso al mi alto. E quella nota eterna di quattro pianoforti nel finale.
Twist and shout. Perdonate la forzatura. Questa non è una canzone “di Lennon”. Ma una cover incisa dai Beatles. Sfido chiunque però a separare le note di Twist and shout dalla voce di John. Questa è probabilmente la più grande interpretazione vocale di Beatle John. E i Beatles nei primi anni dei loro concerti non ci rinunciavano mai. Lennon, con le corde vocali massacrate, la incise alla fine della lunghissima seduta di registrazione del primo album dei Beatles, suonato tutto di fila. Un gargarismo di latte e menta e via, “well shaking up baby”.
Give peace a chance. Divenne l’inno dei pacifisti che chiedevano la fine della guerra nel Vietnam. L’impegno per la pace di Lennon e Yoko Ono in quegli anni era totale, con tanto di manifestazioni a letto. Canzone da solista, ma Lennon la firmò, come da convenzione anche al socio McCartney, prima che tra i due calasse il gelo.
How do you sleep? C’è una bellissima intervista di Lennon, in cui l’ex Beatle ricorda il suo primo incontro con Paul McCartney e lo paragona a quello con Yoko Ono. Capii che quello era il mio partner, amai il suo talento, disse in estrema sintesi Lennon. Un grande amore. E quando i grandi amori finiscono, possono volare parole grosse. John incise questo concentrato di veleno contro l’ex socio (“L’unica cosa che hai fatto è stata Yesterday”, gli dice tra l’altro) inserendola nell’album Imagine, un anno dopo lo scioglimento del gruppo. George Harrison suonò la chitarra. Tempo dopo, malgrado tutto, i due vecchi amici John e Paul fecero pace.
Lucy in the sky with diamonds. Nel 1967, quando la canzone uscì nell’album Sgt. Pepper’s, tutti pensarono all’LSD. Ma Lennon spiegò che la canzone era nata da un disegno del figlio Julian, con una bambina che volava in un cielo di diamanti. “Andai a controllare tutte le iniziali delle mie canzoni per vedere se dicevano qualcos’altro”, raccontò John.
God. Provate ad ascoltarla, ma ad ascoltarla davvero, senza la pelle d’oca. È la canzone sulla fine dei Beatles e sull’inizio di un’altra vita. Con Yoko, ovviamente. “Dio è un concetto con cui misuriamo il nostro dolore”. Quella batteria di Ringo…
Nobody Loves You (When You’re Down and Out). Ma quant’è bella questa ballata malinconica,e quanto è bello questo album, Walls and bridges, del 1974. Un disco figlio del periodo in California, quando John si separò da Yoko e convisse con la segretaria di lei. Lo chiamò il suo “lost weekend”. Poi tornò con la moglie. Qui doveva sentirsi solo.
Julia. Senza questa, è impossibile provare a entrare nel cuore dell’uomo Lennon. Il rapporto difficile con la madre, amatissima, e la morte prematura e improvvisa di lei, furono il trauma dei traumi per John. E condizionarono la sua formazione. In questa struggente ballata del 1968, solo voce e chitarra, Lennon canta per lei. E la chiama in tanti modi, tra cui “Ocean child”, figlia dell’oceano. In giapponese: Yoko Ono.
I’m a looser. Chi avrebbe potuto credere alla fine del 1964, quando Lennon era una specie di re del mondo, che questa canzone sull’essere un perdente fosse almeno in parte autobiografica? Bella l’armonica e bello il duetto con Paul nel ritornello.
Tomorrow never knows. Il genio di Lennon si misura in questa folle e grandiosa sperimentazione del 1966, che chiude l’album dei Beatles Revolver. Se non la conoscete rimediate. E poi informatevi su come nacque, cosa significa e come venne realizzata. Ma prima “spegnete la vostra mente, rilassatevi e seguite la corrente”.
I am the walrus. Lennon era molto fiero, giustamente, di questa canzone del 1967. Che è senza dubbio uno dei suoi capolavori assoluti. Il testo infarcito di nonsense alla Lewis Carrol (con l’omaggio all’autore di Alice nel paese del meraviglie già nel refrain, che rievoca il tricheco, un personaggio del libro), la sontuosa orchestrazione curata da George Martin in stretto raccordo con Lennon, quel finale che si prolunga all’infinito sempre più su, sempre più in alto: questa è una summa del genio lennoniano.
Happiness is a warm gun. Una delle migliori canzoni dell’Album bianco del 1968. Cuce insieme tre canzoni non finite. La “pistola calda” del titolo fu ispirata da una pubblicità. Il cantato di Lennon nella prima parte è ipnotico.
Power to the people. Le idee politiche sinistrorse costarono a Lennon un sacco di guai quando si trasferì in America. Finì nel mirino dell’Fbi, dovette faticare anni per ottenere la green card. Questa canzone (come Gimme some truth) è emblematica.
You’ve got to hide your love away. Lennon fa Bob Dylan, ma imita con stile. Il risultato è una ballata deliziosa. Da rivedere nella versione inserita nel film Help!, davvero molto bella.
In my life. Giù il cappello, signori. Un sondaggio della rivista Mojo nel 2000 la incoronò come la più grande canzone di tutti i tempi. È un gioiello assoluto, cantata divinamente da Lennon e impreziosita dall’assolo di piano (accelerato) suonato da George Martin, produttore e “papà” dei Fab Four. Il testo manoscritto di Lennon è esposto alla British Library vicino agli scritti dei più grandi autori inglesi. McCartney rivendica la paternità della musica, Lennon disse che era tutta roba sua. Poco ci interessa chi mentiva dei due: ascolteremmo questa canzone del 1965 all’infinito.
Norwegian wood. Il sitar suonato da George Harrison irrompe nell’album Rubber soul del 1965 e fa capire al mondo che i Beatles sono diventati grandi e che la musica non sarà mai più la stessa. Sublime ballata lennoniana, con un aiuto del socio McCartney. Parla di una ragazza emancipata in quella Londra che pulsava di cambiamento.
Because. Questa composizione di Lennon (ispirata da Beethoven) per l’album Abbey road esaltò Paul e George. I tre lavorarono con una cura certosina alla parte vocale, registrando le loro tre armonie tre volte. Cercate su Youtube e troverete chi vi fa sentire le tre parti diverse, quelle di McCartney e Harrison sono stupende.
All you need is love. L’inno dell’estate dell’amore del 1967 venne registrato dai Beatles per la prima trasmissione in diretta della Mondovisione. Fu una festa memorabile. Il messaggio della composizione di Lennon è essenziale e universale. E più che condivisibile.
You know my name (look up the number). Racconta McCartney: immaginate che uno come John Lennon vi dica: ho una nuova canzone, ‘sai il mio nome cerca il numero’. E poi come fa? Basta, è finita, è questa la canzone. Il divertissment testimonia quanto i Beatles potessero divertirsi insieme in studio. E fare divertire. Brian Jones degli Stones al sax.
Woman is the nigger of the world. Quel “negro” nel titolo glielo contestarono ma la provocazione era invece quanto mai azzeccata. E la canzone dell’album tutto “politico” Some time in New York City è pure una bella canzone.
She loves you. Per andare lì dove tutto cominciò. A casa di Paul, dove i due ragazzi composero la hit che li consacrò. Alla fine la fecero sentire tutti eccitati al padre di McCartney che obiettò che quello “yeah yeah” fosse troppo “americano”. La voce di Lennon qui è ancora un monumento.
A hard day’s night. Grande pezzo che diede il titolo al film e all’album del 1964. Era una delle espressioni dell’inglese zoppicante di Ringo. L’inciso raggiunge note così alte che John dovette lasciarlo cantare a Paul. L’accordo introduttivo è stato oggetto di studio di fior di musicologi.
Grow old with me. È una delle ultime cose fatte da Lennon prima di morire. E suona così amaro sentirgli dire “invecchia con me” sapendo che da lì a poco sarebbe stato ucciso in quel modo così insensato. Ma a ben pensarci: quante persone nel mondo, ancora oggi, 40 anni dopo, sono invecchiate con lui?