PALERMO – La boria, la spocchia, la prosopopea di Giampiero Ventura è tutta nell’impudenza con la quale a fine partita si dichiara scontento del pareggio: “Peccato, potevamo vincere, ma non siamo stati bravi a gestire le occasioni-gol che abbiamo avuto”. Che personaggio, l’allenatore genovese. Gli sfugge la realtà? Non direi: è un furbone, che sa bene che nel calcio d’oggi senza una buona parlantina – e una fantasia adeguata – non vai da nessuna parte. E lui che in questo calcio ci sguazza da decenni, lo sa bene e agisce di conseguenza: ieri il suo Torino è stato, per l’intero primo tempo e a tratti anche nella ripresa, messo alle corde dal Palermo di Gasperini. Che, però, dalla montagna del suo gioco ha prodotto solo dei bei tiri dalla distanza, sui quali si è esaltata la qualità migliore di Jean Francois Gillet: il colpo d’occhio, l’esplosività e… un pizzico di teatro per i fotografi assiepati dietro la sua porta.
Insomma, c’era una squadra che giocava a calcio ed un’altra che usava mezzi e mezzucci per impedirglielo, comprese le scorrettezze, i calcioni, la furia agonistica. E l’unico schema usato dai granata era il retropassaggio al portiere che, bravo coi piedi come un attaccante, rilanciava lungo ben oltre il centrocampo rosanero. Una tattica, quella di Ventura, che avevo già visto in passato (molto in passato), nientemeno che ai tempi del Palermo di Pino Caramanno, che l’adottava, però, solo contro le squadre chiuse a riccio e non viceversa, come ha fatto ieri il Torino. Il buon Caramanno, interrogato in merito, una volta mi spiegò che: “Se trovi una squadra che non va mai oltre la linea della palla e ti aspetta per colpirti in contropiede, l’unica soluzione è stanarla con i retropassaggi al portiere e i suoi rilanci lunghi: così si ribalta l’azione e trovi spiazzata la difesa avversaria”. E, prima di chiudere, l’ex tecnico rosanero mi fece una confidenza: “C’è un giovane allenatore che segue spesso i miei allenamenti (allora si poteva), si chiama Ventura e, per curiosità, sono andato a vedere la sua squadra: non ci crederai, ma mi ha copiato alla perfezione. Questo qui farà strada, ne sono sicuro, anche perché sapessi come se la cava bene con la sua parlantina…”.
Insomma, nel mondo “virtuale” che è ormai diventato il mondo del calcio, esistono personaggi di pezza e – più raramente – personaggi veri, a tutto tondo: basta saper parlare disinvoltamente e magari spararle grosse. E aggiungo: se parli a ruota libera dicendo, però, cose mai banali, qualcuno finisce anche per crederti e convincersi delle tue analisi post-partita. Voglio dire che per questi profesionisti dell’eloquio, le parole contano certe volte più dei fatti. E i fatti dicono, tuttavia, che il Torino ha nove punti e che non ha mai perso una partita fuori casa. E il Palermo, invece, di punti ne ha solo sei. Ergo, quella di Ventura non è solo parlantina, ma anche capacità e destrezza, solo che davanti ai microfoni, lui spesso si lascia andare, deborda, esagera. Come un attore consumato, perché sa che, alla fine, serve anche questo per caricare la squadra e ottenerne il meglio.
I risultati ottenuti nella sua lunga carriera lo confermano: Ventura è bravo, conosce forse solo un certo tipo di calcio ma sa farlo fruttare. E allora si spiegano annate bellissime come quelle del Cagliari (con un certo Tanino Vasari, il picciotto del Borgo Vecchio che deve tanto al suo maestro palermitano, Ignazio Arcoleo, e che con Ventura giunse alle soglie della Nazionale) e del Bari della sua prima stagione, quando i “galletti” fecero sfoggio di bel gioco e, pur calando vistosamente nel finale, si salvarono alla grande. Ieri, però, il suo Toro di bel gioco non ha proprio dato alcuna prova, tranne un paio di contropiede, dovuti più al Palermo che si sbilanciava fino a scoprirsi del tutto che alle sue fulminee ripartenze. Che, lo ripeto, si basavano sui rilanci di Gillet e nient’altro. Troppo poco. Così, nella ripresa, Ventura, che capisce di calcio, e soprattutto conosce i calciatori, ha capito che la spinta del Palermo non poteva essere più quella dei primi 45 minuti: non più retropassaggi, dunque, ma governo del centrocampo e ripartenze manovrate. La partita, infatti, si è fatta più equilibrata e il Toro ha avuto un paio di occasioni, sventate da un ottimo Ujkani. Ma anche il Palermo, pur calato alla distanza, ha avuto le sue chance, peccato che Ilicic le abbia sprecate, altrimenti sarebbe finita com’era giusto, cioè con la vittoria del Palermo. E chissà che si sarebbe inventato Ventura per spiegare la sconfitta del Toro: “Hanno avuto solo due occasioni nella ripresa e una l’hanno sfruttata, noi, invece, non ci siamo riusciti”. Ma, mister, qualcuno magari avrebbe insistito, nel primo tempo Gillet ha fatto il fenomeno. “Ma quale fenomeno, erano solo tiri da lontano”. Insomma, avrebbe saputo come districarsi, magari sminuendo, per tirarseli dalla sua parte, i meriti del prodigioso portiere belga che, sia pure da lontano, non ne ha lasciata passare una. Neanche la punizione sotto l’incrocio dei pali di Ilicic. Neanche la zampata da due metri di Morganella, sul finire del primo tempo. Insomma, non si sarebbe mai sbilanciato al punto da riconoscere che, se il Palermo pur strapazzando il suo Toro, non era riuscito a passare, la ragione consisteva nel fatto che lì davanti ai rosa manca il cannoniere, quello che calamita le palle vaganti e le mette dentro, che salta bene di testa e le spizzica per il compagno meglio piazzato. Perché questo è il calcio “parlato” di oggi: contano più le etichette, le frasi fatte, i luoghi comuni. Persino più del calcio giocato.
La verità è che, al di là delle chiacchiere, Palermo-Torino è finita con un pareggio a reti bianche che lascia l’amaro in bocca e tanti rimpianti ai siciliani a cui manca l’uomo che la mette dentro alla prima occasione e che quel volpone di Ventura è uscito ancora una volta indenne da una trasferta insidiosa. Forse anche grazie a quegli allenamenti di Caramanno sbirciati quando era un giovane allenatore in erba.