PALERMO – Mai formalmente affiliato al clan di Brancaccio. Non era, infatti, un uomo d’onore. Un carattere che in molti definivano arrogante. E una brevissima parentesi da latitante. Francesco Nangano, oggi cinquantenne, quando di anni ne aveva 37 si diede alla macchia.
Aveva seguito tutto il processo in cui era imputato dell’omicidio di Filippo Ciotta, ucciso forse per avere rubato senza autorizzazione nel quartiere. All’ultima udienza in corte d’Assise, però, non era presente in aula alla lettura del dispositivo della sentenza che lo condannò all’ergastolo. In secondo grado sarebbe stato assolto. Nell’attesa, però, decise di scappare. Una fuga breve. Pochi mesi dopo, nel 2001, la polizia lo scovo’ a caso di un amico meccanico, in via Conte Federico, nel cuore di Brancaccio.
A Brancaccio Nangano ha sempre lavorato. Prima gestendo una pompa di benzina in via Messina Marine rivenduta ai Di Filippo che anni dopo sarebbero diventati collaboratori di giustizia. Poi, sempre nella stessa strada, ha aperto, spostandosi spesso di indirizzo, alcune concessionarie di macchine.
Quello per il delitto Ciotta, rimasto senza colpevoli, non è stato l’unico processo subito da Nangano. Nell’ottobre del 2001 fu assolto in appello dall’accusa di associazione mafiosa. In primo grado era stato condannato ad otto anni di carcere. La storia di Nangano fece scalpore per via della sua relazione sentimentale con un’assistente sociale di Santa Flavia impegnata come giudice popolare nel suo processo. La donna nei giorni della polemica aveva sempre difeso il suo uomo che stava assistendo al dibattimento a piede libero, dopo che la Cassazione aveva annullato l’ordine di arresto. Nel processo per associazione mafiosa, alcuni componenti del gruppo di fuoco di Brancaccio, poi diventati pentiti, dissero che Nangano non era uomo d’onore, ma lo accusarono di essere vicino al boss Gaspare Spatuzza. Altri riferirono che era stato vittima di alcun attentati per colpa del suo carattere arrogante. Vittima, dunque, e non mafioso. Una tesi che convinse i giudici d’appello che lo mandarono assolto. E che lui stesso ribadì scrivendo una lettera dal carcere in cui spiegava che i suoi guai erano scaturiti dagli screzi con i fratelli Di Filippo a cui aveva venduto il distributore di carburanti e che poi sarebbero diventati i suoi più grandi accusatori.