ROMA – ”Mi chiedo, e pongo la questione anche al Ministero, che senso ha far espiare una pena in condizioni così restrittive a una persona che non ha più la percezione dell’ergastolo”. Lo scrive in una lettera indirizzata al direttore del Tempo Gian Marco Chiocci il figlio di Bernardo Provenzano, Angelo, sottolineando che ”papà non capisce più nulla, e comprendendo lo scetticismo di tanti chiedo perché non mandare degli ispettori a verificare le reali condizioni di mio padre e renderle pubbliche anche a mezzo immagini”.
”È vero – dice – che mio padre è un pluri-ergastolano che, in quanto tale, ha l’obbligo, quindi il dovere, di espiare la condanna, ma è pur vero che, allo stato attuale, non è più in grado di provvedere a sé stesso autonomamente: è nutrito con un sondino, ha il catetere, non si alza dal letto né potrà più farlo senza aiuto di altri”. ”Rispetto le sentenze – aggiunge il figlio del boss – ma lo stato di demenza in cui versa gli impedisce di riconoscere i suoi familiari figuriamoci di capire altro. Alla fine la pena la stiamo scontando noi familiari”.
Il direttore del quotidiano risponde che ”la vicenda di suo padre grida vendetta. Ed è una vendetta assimilabile a quella che lo Stato consuma in modo vile, silente e vergognoso su un detenuto ridotto a una larva che per quante (e sono tante) colpe abbia commesso, per quanta gente (tantissima) abbia fatto soffrire, ha comunque diritto a un trattamento non disumano, a cure mediche, a un brandello d’affetto ora che non è più in grado di comprendere e volere”. Ma ”servirebbe uno Stato che non avesse paura dei fantasmi inchiodati a un letto”. Dunque, ”caro Angelo, anche se persino i pm si sono convinti della gravità della situazione, non telefoni alla Cancellieri. Senza intercettazioni forse qualcosa la ministra avrebbe potuto fare, ma anche a lei, come a suo padre, hanno legato le mani”.