"Binnu ci ha sparato... lui e un altro"| Il delitto Scaglione rivelato da Riina - Live Sicilia

“Binnu ci ha sparato… lui e un altro”| Il delitto Scaglione rivelato da Riina

Il padrino corleonese, mentre passeggia nel cortile del carcere di Opere, apre uno squarcio su uno dei tanti delitti irrisolti della storia repubblicana. Quello del procuratore di Palermo, Pietro Scaglione, assassinato nel 1971. Fu l'inizio dell'attacco allo Stato.

CORREVA L'ANNO 1971
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PALERMO – È il 31 agosto 2013. Esattamente un anno fa. Totò Riina passeggia nel cortile del carcere di Opera con il suo suo compagno di socialità, Alberto Lorusso E apre uno squarcio su uno dei tanti delitti irrisolti della storia repubblicana. Una storia che ha correttamente individuato nell’omicidio di Pietro Scaglione il primo attacco della mafia contro le Istituzioni. A sferrarlo, svela ora Riina, furono i corleonesi: “L’altro pubblico ministero… sono venuti da Lercara. Lo abbiamo ammazzato. Binnu (Bernardo Provenzano ndr) ci ha sparato. Ci ha sparato… lui con un altro. Stava andando al cimitero. Stava andando al cimitero da sua moglie e ci spararono. Lo hanno preso a tradimento tu… tu… tu… (simula il rumore degli spari) e gli hanno sparato… i procuratori morivano tannu accussì. Ma c’era una moria qua a Palermo”.

Non ci sono dubbi che il capo dei capi stia parlando di Scaglione. La mattina del 5 maggio 1971 il procuratore della Repubblica di Palermo viene freddato in via Cipressi assieme al brigadiere Antonino Lo Russo. È appena uscito dal cimitero dei Cappuccini – il cimitero citato da Riina – dove ha pregato sulla tomba della moglie. La sua macchina viene affiancata dalla vettura dei killer. Che lo crivellano di colpi. Le inchieste si sono sempre chiuse con un nulla di fatto. Il delitto è rimasto senza colpevoli.

Con l’assassinio del magistrato, per la prima volta, la mafia rurale alzò il tiro. Eppure sulla figura di Scaglione iniziò una lunga e dolorosa stagione di delegittimazione. Dipinto, a torto, come un servitore dello Stato ambiguo, il tempo e la storia avrebbero spazzato via ogni dubbio. Con decreto del ministero della Giustizia, nel 1991 il procuratore Scaglione è stato riconosciuto “vittima del dovere e della mafia”. Basta leggere le parole di altri morti ammazzati per capire davvero il ruolo del magistrato. Giovanni Falcone scrisse che con la sua uccisione “si voleva dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino”. Il cronista giudiziario Mario Francese disse che Scaglione era stato “convinto assertore che la mafia aveva origini politiche, e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni”. Paolo Borsellino fu ancora più netto, lo inserì nel triste elenco degli uomini “isolati, uccisi, persino calunniati”.

Il movente del delitto? Scaglione aveva fotografato l’inizio dell’inarrestabile avanzata dei corleonesi. Le inchieste non raccosero prove sufficienti per contestare il delitto a Gaetano Fidanzati, Pietro D’Accardio, Gerlando Alberti senior e junior, Francesco Russo, Luciano Liggio, Pippo Calò e Totò Riina. Lo stesso Riina che ora apre uno squarcio nella storia. Fu Bernardo Provenzano, suo fidatissimo braccio destro – così dice al compagno di ora d’aria – a premere il grilletto: “Lo hanno preso a tradimento tu… tu… tu… e gli hanno sparato…”. Perché “i procuratori morivano tannu accussì”. Fu l’inizio della guerra dell’antistato allo Stato.

 


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