Palermo, dissociarsi non basta: Filippo Graviano resta al 41 bis

La dissociazione non basta, Filippo Graviano resta al carcere duro

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del boss

PALERMO – Filippo Graviano resta al 41 bis. La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del boss di Brancaccio che chiedeva di lasciare il regime del carcere duro.

Condannato all’ergastolo per l’omicidio del beato Pino Puglisi e per le stragi del 1992 e del 1993, sperava che i giudici tenessero conto del suo percorso di rieducazione e della dissociazione da Cosa Nostra in aula nel 2021.

La dissociazione di Filippo Graviano

Tre anni fa sottoscrisse una dichiarazione di dissociazione dalla mafia, a cui non seguì una collaborazione con la giustizia. Si limitò ad ammettere di avere fatto parte della cosca di Brancaccio.

Filippo Graviano ha sostenuto di non avere più contatti con il fratello Giuseppe, di essersi dedicato allo studio e di avere tenuto una condotta carceraria regolare da quando è detenuto (dal 1994).

Il tribunale di Sorveglianza di Roma ha respinto il reclamo di Graviano contro la proroga di due anni – il rinnovo è periodico – del regime carcerario riservato ai capimafia. Il boss di Brancaccio ritenendo che siano state violate le sentenze della Corte europea de diritti dell’uomo della Corte costituzionale si è rivolto ai supremi giudici.

Cosa dice il boss

In particolare, il boss contestava la violazione dell’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge“) e il mancato rispetto della “non automaticità del diniego dei benefici.

Altro punto del ricorso la “doverosità che anche il regime penitenziario differenziato non vanifichi la finalità rieducativa della pena”.

Ricorso inammissibile

La Cassazione ha giudicato il ricorso “inammissibile”. Nella motivazione si legge che Filippo Graviano “oppone alla ricostruzione della storia criminale del ricorrente, effettuata nell’ordinanza impugnata sulla base delle sentenze di condanna, una diversa ricostruzione basata sulle sentenze assolutorie, sminuendo la rilevanza e la portata di quelle di contenuto contrario, e non si confronta con l’ordinanza impugnata nella parte in cui questa sottolinea gli accertati contatti con il clan di appartenenza, mantenuti attraverso alcuni familiari”.

Il “pericolo del ripristino” del suo ruolo criminale è concreto. La sentenza della Cassazione è del 14 otobre scorso, le motivazioni sono state pubblicate ora.


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