PALERMO – “… ma non è che sono stati quelli del Borgo?”, chiedeva Giovanni Di Giacomo. “Sì”, rispondeva senza esitazione il fratello Giuseppe. Era il 19 luglio 2013. I Di Giacomo, nella sala colloqui del carcere di Parma, discutevano dell’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà. La breve, ma significativa, conversazione fa parte del nuovo filone investigativo sull’efferato delitto del penalista palermitano.
Il 20 gennaio scorso il giudice per le indagini preliminari Fernando Sestito ha archiviato l’indagine per l’omicidio a carico di Francesco Arcuri, Salvatore Ingrassia e Antonio Siragusa – arrestati per il delitto e poi scarcerati dopo alterne pronunce giudiziarie – Tommaso Di Giovanni, Gaspare Parisi, Giuseppe Auteri, Antonino Abbate e Giovan Battista Bongiorno (accusato di favoreggiamento). La ricerca della verità prosegue nonostante l’archiviazione. E si concentra anche, ma non solo, sul sottobosco mafioso del Borgo Vecchio, lo stesso contesto in cui si erano sviluppate le prime indagini chiuse con un nulla di fatto. Lo stesso in cui si muoveva parte degli indagati. Alcuni, come nel caso di Abbate, con un ruolo di vertice.
L’intercettazione dei Di Giacomo, che non fa parte del vecchio fascicolo, è dell’estate di due anni fa. Gli investigatori oggi la rileggono con nuova attenzione. Otto mesi dopo quelle parole i killer avrebbero crivellato di colpi Giuseppe in una strada della Zisa. Giovanni, sicario ergastolano del gruppo di fuoco di Pippò Calò, chiedeva informazioni al fratello che in quel momento storico aveva assunto una posizione di vertice nel clan di Porta Nuova. La conversazione avveniva una settimana dopo che Arcuri, Ingrassia e Siragusa erano finiti in carcere nell’ambito dell’inchiesta poi culminata nell’archiviazione.
Giuseppe Di Giacomo, nel luglio 2013, dunque, sapeva che il delitto era stato deciso da qualcuno del Borgo. Il fratello si chiedeva “ma tu pensi che Spitino non sa niente?”. Spitino sarebbe il soprannome di Gregorio Di Giovanni, indicato allora come il reggente del mandamento di Porta Nuova. Per Giuseppe Di Giacomo era impossibile dare una risposta visto che il 26 febbraio 2010, giorno del delitto Fragalà, era detenuto al carcere Pagliarelli.
Non è l’unica conversazione in possesso degli investigatori. Il 17 gennaio 2014, dunque in epoca molto più recente, sempre nel carcere di Parma, Giovanni Di Giacomo, stavolta a colloquio non solo con Giuseppe ma anche con l’altro fratello Marcello, tornava a chiedere notizie dei tre arrestati: “… questi picciutteddi che fino hanno fatto?”. Solo che nel passaggio successivo sembrerebbe citare qualcun altro: “Ma con gli altri picciutteddi?”. “A posto, a posto”, tagliava corto Giuseppe, mentre Marcello diceva: “Niente, niente”. Giovanni rilanciava: “… ma pure… ma pure sono immischiati?”. “… no… pure (annuisce col capo, annotano i carabinieri)… lo vedi… non senti niente… belli tranquilli”. E giù risate.
Chi sono “gli altri picciutteddi”? Sono davvero coinvolti nel delitto come sembrerebbe emergere dalle parole dei Di Giacomo? Quel “non senti niente” può significare, come dicono gli stessi investigatori, che qualcuno bene informato era rimasto con la bocca chiusa? Il caso Fragalà resta aperto. Si continua a scavare fra i brogliacci delle intercettazioni per scovare chi ha barbaramente assassinato il penalista a colpi di bastone, dopo avere atteso che scendesse dal suo studio di via Nicolò Turrisi al termine di una lunga giornata di lavoro. Il cuore di Fragalà smise di battere dopo alcuni giorni di coma.