PALERMO – Nel nuovo Palazzo di giustizia di Palermo Pino Faraone si presenta visibilmente provato dal carcere in cui è rinchiuso dal 9 febbraio scorso. Il giorno del suo arresto nel blitz Apocalisse 2. La prima volta il consigliere comunale aveva deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Ieri è andata diversamente. Accompagnato dai suoi legali, gli avvocati Marina Cassarà ed Anthony De Lisi, Faraone risponde e si difende.
Da quando è finito in cella dice di chiedersi ogni istante perché mai sia stato coinvolto in una brutta storia di mafia. È accusato, infatti, di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. Alla base del suo arresto ci sono le intercettazioni telefoniche e la denuncia di Antonino Arnone, l’imprenditore che il politico avrebbe messo in contatto con il boss che pretendeva la messa a posto dell’azienda. Faraone definisce il suo accusatore “una persona per bene con cui ho rapporti da tempo”.
Rapporti leciti perché l’imprenditore, racconta Faraone, “mi ha sempre aiutato nelle campagne elettorali”. Il politico sostiene che fra lui e l’imprenditore i rapporti sarebbero proseguiti anche dopo che Arnone, nel luglio 2014, ammise ciò che prima aveva negato e cioè che il consigliere comunale fosse l’intermediario della sua estorsione. Alcuni contatti, di cui nulla viene anticipato per una precisa strategia difensiva, testimonierebbero una continuità di rapporti successiva a quando erano già cristallizzati i ruoli di vittima e carnefice.
E i contatti con il presunto capomafia Francesco D’Alessandro? Faraone non nega di conoscerlo da tanto tempo e di averlo pure aiutato. Niente di illecito, però. In un momento di difficoltà economica di D’Alessandro, che non aveva i soldi necessario per la spesa, Faraone sostiene di averlo aiutato dandogli i cinquanta euro di cui si parla nelle intercettazioni. L’indagato, d’altra parte, descrive se stesso come una persona disponibile con tutti e fa pure i nomi di coloro che avrebbero beneficiato della sua generosità.
Una generosità vista, sempre e solo, in chiave di raccolta di consenso perché, dice, “io sono sempre in campagna elettorale”. Non solo quando si è candidato in prima persona – alle ultime regionali senza successo e alle amministrative culminate nell’elezione – ma anche per dare una mano ad altri. Perché il consenso, ne è convinto, si raccoglie stando in mezzo alla gente “offrendo un caffè o comprando un pacchetto di sigarette a chi è in difficoltà economiche”. Perché allora, gli chiede ancora una volta il Gip, l’imprenditore lo avrebbe accusato? “Non lo so, giuro non lo so”, risponde Faraone in lacrime.
Al termine dell’interrogatorio i difensori hanno chiesto al giudice la scarcerazione dell’indagato convinti della sua estraneità alle accuse che sono già state ritenute solide per giustificarne l’arresto. In subordine, i legali chiedono gli arresti domiciliari senza il vincolo dell’applicazione del braccialetto elettronico. Un vincolo che di fatto lo sta tenendo in carcere perché i dispositivi elettronici sono esauriti da tempo. Si attende che se ne liberi qualcuno. Il giudice deciderà nelle prossime ore.