PALERMO – I testimoni del massacro di migranti sono tenuti sotto scorta in una località segreta. Sono in sei, fra cui un minorenne, e la Procura spinge per eseguire un incidente probatorio martedì prossimo. Visto il contesto di grande paura c’è l’esigenza di cristallizzare al più presto le prove di quando accaduto due giorni fa sul gommone nel Canale di Sicilia.
È andato in scena il più estremo degli odi religiosi. Quello che può spingere, in questo caso, dei musulmani ad uccidere dei cristiani scaraventandoli in mare. Per quale colpa o peccato? L’avere supplicato Dio e non Allah di salvarli. La guerra di religione sbarca, dunque, in Sicilia.
Lo scontro religioso fra i disperati stipati nelle carrette è un fatto nuovo che preoccupa i magistrati. Il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, che ha chiesto il via libera al ministro della Giustizia per fermare i presunti assassini, parla di “squarcio sconcertante”. Nessun elemento investigativo fa collegare la tragedia nel Canale di Sicilia alle organizzazione terroristiche. L’odio religioso, però, per stessa ammissione di Lo Voi è un elemento che obbliga a riflettere sulla “pericolosità di certi arrivi”.
Una ferocia inaudita, così la descrivono i sei migranti che, assistiti dall’avvocato Giulio Bonanno, appena sbarcati a Palermo, hanno trovato il coraggio di raccontare l’ennesima tragedia del mare. Stavolta i morti – una dozzina, o forse più, di ghanesi e nigeriani – si devono alla mano umana e non ai rischi connessi alla traversata. Le testimonianze hanno fatto scattare il fermo di quindici africani di origine senegalese, ivoriana e della Guinea Bissau. I pubblici ministeri Marina Ingoglia e Renza Cescon, coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Scalia, hanno chiesto la convalida del fermo al giudice per le indagini preliminari Guglielmo Nicastro. Il Gip ha 48 ore di tempo per decidere se liberare gli indagati oppure se firmare un’ordinanza di custodia cautelare e tenerli rinchiusi nel carcere Pagliarelli dove sono stati condotti dai poliziotti della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile.
Sono tutti accusati di omicidio plurimo aggravato dall’odio religioso. Un omicidio per il quale, però, manca la prova principe. E cioè il corpo delle vittime della ferocia. Tra questi potrebbero esserci i quattro cadaveri ripescati ieri dall’equipaggio della nave Bersagliere della Marina militare italiana. Le testimonianze, però, sono univoche, così come i riconoscimenti fotografici. Nel marasma di un gommone che imbarcava acqua, nel dramma di uscire vivi dall’inferno, i volti dei presunti assassini sono rimasti impressi negli occhi dei testimoni. Che non hanno avuto esitazione alcuna a puntare il dito sulle foto dei fermati. “Sono loro”, hanno detto ai pubblici ministeri che ieri, fino a tarda serata, hanno ascoltato di nuovo le testimonianze raccolte in prima battuta dai poliziotti. Un migrante ha detto di avere morso al piede l’uomo che tentava di spingerlo fra le onde. Ed in effetti una ferita compatibile con il suo racconto è stata riscontrata su uno dei presunti assassini.
L’ennesimo carico di disperati era partito dalla Libia il 14 aprile. Molti avevano cercato riparo nel paese nordafricano. Poi, avrebbero capito che in quanto cristiani era meglio cambiare aria. Ad un certo punto, calata la sera nel Canale di Sicilia, il gommone forse ha iniziato a imbarcare acqua. E i migranti si sono affidate alle preghiere. Ciascuno rivolgendole al proprio Dio. C’è, però, chi avrebbe preteso il silenzio dai cristiani. Solo Allah poteva salvarli. “Hanno iniziato a gettare in mare alcuni di noi cristiani”, hanno raccontato i testimoni. Per primo è toccato ad un nigeriano. È stato il là alla furia dei musulmani che hanno riservato la stessa sorte ad altri undici uomini – ghanesi e nigeriani – uno dopo l’altro. Il bilancio avrebbe potuto essere più pesante se gli altri cristiani non avessero fatto delle catene umane. Stretti con forza l’uno all’altro avrebbero attutito la spinta dei compagni di traversata divenuti spietati assassini.
Le indagini si muovono su più fronti. Da un lato l’esigenza di accertare e punire gli eventuali responsabili del massacro di due giorni fa. Dall’altro, la volontà di scoprire tutti i passaggi della regia che sta dietro i continui sbarchi. Le indagini nei mesi scorsi hanno confermato che le rotte dei clandestini sono gestite da organizzazioni criminali. Ad esempio per il naufragio che il 3 ottobre 2013 provocò 366 morti a largo di Lampedusa si è scoperta l’esistenza di una banda che forniva ai clandestini, una volta giunti in Sicilia dal Sudan e dalla Libia, gli appoggi necessari per spostarsi nel Nord Italia o addirittura in Svezia, Norvegia, Canada e Australia. Non opera una sola organizzazione, ma diversi gruppi criminali che sperano pure nelle disgrazie altrui. Alcune intercettazioni hanno svelato, ad esempio, la felicità per la notizia della morte dei clandestini durante una delle tante traversate. Perché anche la morte è utile ad eliminare la concorrenza.