Inquisiti, pataccari, non vedenti |Quel che resta dell'Antimafia

Inquisiti, pataccari, non vedenti |Quel che resta dell’Antimafia

Prima di incollare i cocci degli scandali, sarebbe il momento di interrogarsi sulla mortifera cultura del sospetto.

E dopo questa settimana marchiata dal baffo di Pino Maniaci e da questa piccola storia di paese assurta ad affare di Stato, sintomo dell’impazzimento generale che tutto il variopinto circo antimafioso ha conosciuto in questi anni, dopo questa settimana di processi sommari e faccende di femmine, canuzzi ammazzati e banconote da 50 euro, chi si cimenterà a incollare i cocci di quest’antimafia travolta da scandali e delusioni? L’opera è proibitiva, ma i volenterosi non mancano. È l’ora della rifondazione moralista che della vecchia antimafia vuole fare una bad company, il momento solenne in cui si separa il grano dal loglio, smascherando, sputtanando e condannando all’esilio i ‘professionisti dell’antimafia delle carriere e degli affari’ (una perifrasi che su questo giornale si leggeva già anni e anni fa, quando suonava quasi come una bestemmia). Ai reietti di oggi tocca di passare dall’ordalia del fuoco, al vaglio di un sinedrio rigorosamente affollato da altri professionisti dell’antimafia. Ma di quella ‘buona’, s’intende. Anche se il confine tra buoni e cattivi, adesso che il grande inganno si sgretola, appare e riappare, si sposta e si confonde. E il passaggio da una parte all’altra della linea bianca sulla lavagna che separa buoni e cattivi avviene in modo repentino e drammatico.

Proprio come accaduto a Maniaci, a cui ora tocca leggere il proprio nome e cognome nella stessa colonna, infam(ant)e, dove anche la sua mano aveva tracciato, per dire, il nome e cognome di Silvana Saguto e dei suoi buoni amici. È un gioco diabolico questo, in cui, a proposito, gli amici di ieri diventano gli accusatori di oggi. Hanno molto colpito le parole di Claudio Fava, che a Maniaci fu vicino, quando ha raccontato la sua stupita e amareggiata delusione nel leggere le intercettazioni del giornalista di Telejato. Non aveva capito, non poteva sapere. E nessuno, alla luce della sua limpida storia personale, si sogna di metterlo in dubbio. Eppure il perverso corollario del “non poteva non sapere” è stato il caposaldo di quella mortifera cultura del sospetto che per anni e anni è stata un bastione dell’antimafia organizzata. E che ha distrutto vite, ammazzato carriere, rovinato esistenze, senza scomodarsi ad aspettare quella formalità che si chiama processo, senza preoccuparsi troppo di quelle garanzie, a partire dalla presunzione d’innocenza, che stanno (o dovrebbero stare) alle fondamenta della civiltà. A cui questo Paese da un pezzo ha rinunciato, sostituendo i processi dei tribunali con le conferenze stampa dei pm, trasfigurate in sentenza nella vulgata delle cronache infarcite di intercettazioni. E piaccia o meno, anche questo è almeno in parte un frutto avvelenato di una certa antimafia. Che oggi, come uno spietato contrappasso dantesco, si ritorce contro i paladini dell’antimafia stessa. Che finiscono tutti nello stesso indistinto calderone, tutti colpevoli, tutti uguali come in un film di Alberto Sordi avrebbe detto il giovane Nanni Moretti, e poco importa che ti abbiano beccato col sorcio in bocca della mazzetta o che contro di te ci sia la parola di qualche pentito o le ipotesi tutte da dimostrare di una procura.

No, tutti uguali non sono, sbatte oggi i pugni Fava, che stigmatizza il giochino di chi vuol mettere in un’unica barca “Maniaci e don Ciotti”. E nel dirlo ha tutte le ragioni. Meno che una, forse, quella di non riconoscere che proprio una certa sottocultura antimafiosa ha impostato per un pezzo, e continua a impostare, su questo giochino della generalizzazione e del processo sommario il suo potere, per sbarazzarsi di nemici scomodi e respingere le critiche di merito. Emettendo patenti di malafede per il malcapitato beccato a chiacchierare con chi magari dieci anni dopo si sarebbe scoperto mafioso. Non poteva non sapere, tutti sapevano, era chiacchierato… Quante volte c’è toccato leggere ritornelli di questo tipo? Ma il fiuto sopraffino per annusare l’infingardo (o presunto tale) può mancare anche ai moralizzatori. Ce lo rammenta il caso Maniaci. O magari, con un piccolo esercizio di memoria, il caso del prefetto Caruso, preso a pesci in faccia dalla commissione Antimafia di Rosy Bindi quando denunciò le storture nella gestione dei beni confiscati, crocifisso dai Moralizzatori supremi dell’Anm con questa nota (qui il link) che resta a futura memoria. A ricordarci che tutti – duri e puri inclusi – possiamo prendere una cantonata. Per la quale oggi l’antimafia chiodata si autoassolve, applicando a se stessa una clemenza che per i suoi “nemici” (e con questa parola non ci si riferisce ai boss con tanto di pedigree, ma a tutti quelli che per svariati motivi hanno avuto la sventura di incappare negli strali dei moralizzatori finendo poi prosciolti, assolti o magari risarciti) non ha mai mostrato. La reprimenda di Antonio Ingroia alla procura di Palermo sulla disinvolta esibizione di intercettazioni, che ricorda la vecchia rubrica della Settimana enigmistica “umorismo involontario”, incarna meglio di qualsiasi altra cosa, forse, la spaventosa ipocrisia di questo grande circo. Che ha garantito visibilità, potere, carriere e danaro. E non si parla delle stropicciate banconote riprese dalle telecamere a Borgetto. Nello Musumeci, ad esempio, annunciava a Livesicilia qualche giorno fa che l’Antimafia regionale indagherà su come le associazioni che si occupano di legalità abbiano utilizzato i fondi a loro destinati, tema senza dubbio interessante. E sì perché ormai, a Palermo come a Roma, l’Antimafia indaga quasi più su se stessa che sulla mafia. Un (tardivo?) atto di coraggio, certo. Ma anche un ottimo pretesto per giustificare la sopravvivenza del circoletto, anche dopo la fine del grande inganno.


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