PALERMO – Il confronto è aspro. “Non eri un bidello, ma il capomafia”, dice Mario Cusimano rivolgendosi a Stefano Lo Verso. Il processo è quello che vede imputati Ignazio Fontana e Giuseppe Comparetto per la lupara bianca di Andrea Cottone, avvenuta nel 2002 a Ficarazzi, un paesino vicinissimo a Palermo. In primo grado sono stati condannati all’ergastolo.
Cusimano e Lo Verso hanno raccontato versioni diverse. Uno dei due mente. Quanto è difficile raggiungere la verità quando ci sono di mezzo le bugie. Ecco perché è stato necessario metterli a confronto. Lo Verso sostiene che nulla sapeva del piano di morte. Scoprì la verità all’ultimo momento, quando Cottone fu convocato con una scusa all’interno di un minigolf. “Non è vero”, tuona Cusimano. Lo Verso sapeva benissimo cosa stesse per accadere. Non poteva non saperlo perché era il responsabile della famiglia mafiosa di Ficarazzi. Non si ammazza qualcuno senza il consenso del capo. “Le regole sono regole”, aggiunge Cusimano., sostenendo che per mesi Lo Verso cercò di adescare Cottone.
A dare man forte a questa tesi sono le parole dei giudici della Corte d’appello che in un altro troncone hanno condannato all’ergastolo Onofrio Morreale e Nicola Mandalà e assolto Michele Rubino.
Nella motivazione della sentenza la Corte è durissima. Piccona la credibilità di Lo Verso e ha trasmesso gli atti alla Procura per valutare la posizione del collaboratore di giustizia. Non è una faccenda di poco conto, visto che i giudici di secondo grado non credono al ruolo che si è attribuito di testimone inconsapevole dell’omicidio. Una buona parte delle cento pagine delle motivazioni scritte dal presidente Biagio Insacco e dal giudice relatore Antonia Papplardo è dedicata al “fuorviante e inattendibile intento di discolpa” del collaboratore e alla sua “tesi soggettivamente orientata a proprio vantaggio”.
Cottone il 6 settembre del 1995 era stato arrestato per associazione mafiosa perché ritenuto ‘capodecina’ della ‘famiglia’ di Villabate. Nel 1999, dopo la sua scarcerazione, aveva continuato a essere vicino alla cosca dei Montalto, reggenti della famiglia mafiosa di Villabate. Sarebbe stato ucciso proprio per un regolamento di conti fra cosche. Il 13 novembre del 2002 l’imprenditore venne accompagnato a bordo della propria auto al ristorante minigolf di Ficarazzi, apparentemente per discutere con Onofrio Morreale su alcuni furti ai danni dello stesso Cottone. Da quel giorno si persero le sue tracce.
La moglie presentò denuncia di scomparsa. Due settimane dopo l’autovettura dell’imprenditore fu trovata a Termini Imerese regolarmente parcheggiata. Lo Verso ricostruì la trappola. Disse che anche lui era scampato alla morte. Ebbe la fortuna che un uomo, casualmente sul posto, lo avesse visto e salutato. E per evitare guai Lo Verso sarebbe stato risparmiato.
Poi, scese nei macabri particolari: “Io a Michele Rubino lo conoscevo da vecchia data ma in quell’occasione quando sono entrato e l’ho visto che lui lo teneva per un braccio e l’altro per un altro braccio, mentre il Morreale c’era di sopra, io non l’ho riconosciuto, perché lui aveva, aveva questi capelli buttati tutti in avanti, tutto vestito di nero… successivamente quando c’è stata poi una mangiata alla fattoria di Spera, il Comparetto mi disse: non l’hai riconosciuto? Ci dissi: ma a chi? A Michele. Ed Ezio Fontana era coi capelli tagliati, che poi l’ho riconosciuto”. Ed ancora: “… sento tototon… entro e trovo Andrea a terra e tutti di sopra… subito scappo… io rimando vivo perché riesco a uscire, vado fuori… gridava ma era vivo ho pensato può essere che gli danno un po’ di legnate… e lo lasciano stare e me ne vado dietro di loro, dietro a Comparetto”.
Cusimano smentisce la sua ricostruzione, sostenendo che Lo Verso sapeva esattamente che Cottone fosse stato convocato all’appuntamento con la morte. E non poteva essere altrimenti, visto che Cusimano lo piazza alla guida del clan di Ficarazzi nei giorni dell’omicidio.
La ricostruzione di Lo Verso non ha convinto il collegio. Da qui l’assoluzione di Rubino, assistito dagli avvocati Michele Giovinco e Domenico La Blasca, che il collaboratore non aveva neppure riconosciuto in fotografia durante un interrogatorio. I giudici parlano di “foga descrittiva che si impadronisce del dichiarante”, di “alluvione che rende impalpabili i riferimenti”. Non credono che i boss lo abbiano graziato. La mafia non risparmia i testimoni scomodi, ma li elimina. Non crede che la paura possa avere offuscato i suoi ricordi.