Qualche anno fa, nottetempo, ero in macchina e avevo appena varcato il confine per entrare in Italia. Non avevo cenato e la pancia brontolava da un po’. L’equazione è stata immediata: Italia=pizza! Da mesi non ne mangiavo una degna di questo nome. Erano passate le undici, e, appena qualche chilometro prima, trovare un posto aperto per mangiare qualcosa sarebbe stata un’impresa impossibile. ‘Non, Madame. Désolé, mais à cette heure TOUT EST FERMÉ (tutto è chiuso).’
Ma il belpaese mica è bel paese per niente. Perché anche nel posto più sperduto, come quello in cui mi trovavo, una pizzeria, con tanto di rivugghio di cristiani, l’avrei trovata sempre. E infatti, eccola. Spartana, le tendine di fili di plastica davanti alla porta – di quelle che le scosti e non riesci a scostarle mai perché quegli altri dieci fili ti scappano sempre e ti sbattono sugli occhi (avete presente? Come nelle salumerie di paese) – e un profumo di forno a legna che mi sono commossa.
Ma l’emozione più grande doveva ancora arrivare. Fuori buio pesto, una statale deserta che tagliava questa frazione di una frazione. Potevo essere ovunque. Ma no. Perché quando ho tirato la pesante porta a vetri della pizzeria, un’ondata improvvisa di rumori e voci mi ha investita – risate, urla di bambini, sedie che sbattono, posate che tintinnano, camerieri che gridano: Margherita!! Per chi è la Margherita?!”. “Mia sua loro!” -. Un’ondata di chiasso totale che mi ha sommersa. Come lo scirocco quando apri le persiane alle due del pomeriggio. Potente, violento. Caldissimo. No, non ero in un posto qualunque. Ero a casa.
Si, perché a volte basta aprire una porta per capire che hai appena varcato una frontiera. Provate ad entrare in un ristorante dall’altro lato delle Alpi. Vi sembrerà di entrare in chiesa, col cameriere che bisbiglia il menù del giorno, versando il vino, e voi che vi inginocchiate per la benedizione. Sussurri a fior di labbra si levano da tavoli come in confessionale, mai più di quattro, al massimo sei, i commensali. Se siete in sette, chiedere al proprietario di unire due tavoli è come chiedere al prete di sposare uno scomunicato.
Le cene francesi: un raffinato digiuno sottovoce (quando un giorno sta per finire e un nuovo giorno deve cominciare…), innaffiato da litri e litri di vino. Una punta di foie gras al sentore d’arancia, un’idea di camembert e l’intuizione lontana di una mousse au chocolat non vi salveranno dal coma etilico e dalla fame nera.
Seduti a tavola, famelici e già ubriachi, avrete voglia di addentare quell’ultimo quadratino di formaggio. Ma non si può, perché, come per ogni cosa in Francia, ci sarà una mezz’oretta di ode alla madrepatria capace di creare cose tanto buone. E intanto, per le fame, quel microscopico pezzettino di caglio, avrà assunto la forma, il profumo, il desiderio di un’arancina del bar Alba, di un cannolo di Dattilo, della pasta al forno di vostra nonna.
La cultura passa dalla tavola. Per esempio, al buffet, una sera: da brava palermitana, preso il mio piatto, mi fiondo dritta al tavolo per riempirlo di ogni ben di Dio, quando comincio a sentirmi osservata. Istintivamente, mi giro a guardare accanto a me: in fila come i fedeli al momento dell’eucaristia, i miei amici francesi, con i loro piatti vuoti in mano, mi guardavano con uno sdegno misto a pietà.
Fortuna che siamo nella patria del vino e a cena, già dopo qualche bicchiere, l’atmosfera si distende e viene fuori la parte che mi piace di più. Avete presente i film transalpini, quelli in cui l’azione è immobile e tre quarti di scena sono fatti di dialoghi serrati e nevrotici, tra una crisi, un innamoramento e una citazione di Voltaire? A tavola è davvero così. Quest’intimità un po’ bohémienne, una fratellanza che si rivela a poco a poco: l’ironia e la polemica. Così vivace, così francese! J’adore!