Bella e accurata inchiesta de “Il Foglio” su problematiche, temi e svolgimenti dell’estate siculo-panormitana. Ieri, ancora un pezzo di Marina Valensise. Epicentro: Tomasi di Lampedusa e il celebre motto sul cambiamento di tutto affinchè tutto rimanga com’è. Occhiello: “Il pessimismo del gran principe di Lampedusa sopravvive alle rare smentite della società civile”. Articoletto d’appoggio: “Dopo il miracolo di Santa Rosalia, che invece di guarirla ha esasperato la peste politica di Palermo, dopo il racconto della città sotto l’assedio dei rifiuti e l’imbroglio regionale che ne è all’origine, la puntata di oggi affronta il controverso lascito di Tomasi di Lampedusa, l’idea di una Sicilia irredimibile”.
Cari “Foglianti”, e sì che siete tanto bravi e dovreste pur saperlo: di irredimibile c’è solo la speranza. D’accordo, il folclore, il maledetto folclore, l’acchianata, le panelle, i “figghiu miu”, perfino Capaci e via D’Amelio santini di una memoria smemorata. D’accordo, non è semplice abbracciare la Sicilia al netto del suo cilicio. D’accordo, non a tutti è dato di scorgerla sotto la cipria del luogo comune. D’accordo, i reportage sono incantevoli e assai più vivi e ansiosi di comprensione della sepolcrale premessa … E dunque mica ce la prendiamo (perchè dovremmo?) con la roccaforte di Giuliano Ferrara. Il succo distillato del “Foglio è casomai una base di salubre discussione. Ce la prendiamo con noi stessi, miseri indigeni con l’anello del cinismo al naso. Siamo i primi a credere nel “cambiare per non cambiare”. Il motto dello scrittore che azzeccò un solo romanzo come si vince all’Enalotto è diventato la calzamaglia con cui celarsi il viso per saccheggiare la ricchezza della nostra identità.
E “digiamolo”, il paradigma del signor Tomasi è una sciocchezza col botto. La Sicilia cambia. Palermo cambia. E sul serio, nelle viscere. Cambiammo in meglio, quando ci vollero due bombe due per sollecitare una asfittica e auto-oppressiva coscienza civile. Ora siamo cambiati in peggio. Del risveglio degli anni Novanta è rimasta una bava da lumaca, la cenere dei tempi che furono e che tentarono di essere diversi dai precedenti. Nulla di esclusivo, giacchè l’idea di una unicità siciliana è la la nostra vera disgrazia. Potrebbe capitare pure a Stoccolma.
Come fare per prendere i tempi per le corna e portarli dove cuore e anima ci suggerirebbero? Primo, dare finalmente un bel calcio nel sedere al “Gattopardo” – fosse anche uno stereotipo culturale incrostato da interpolazioni mendaci – e ai gattopardini di recente conio. Secondo, scegliere come aforisma ideale una particola di pellicola del Signore degli Anelli. C’è un momento bruttissimo in cui gli orchi assediano la città. Un tale si rivolge all’eroe e sospira qualcosa, tipo: siamo fottuti. L’eroe risponde: “C’è sempre una speranza”. Ecco la frase. Suona meglio, ci vuole poco a ricordarla. E non consente più alibi al cospetto degli orchi.