CATANIA – Revenge è una delle operazioni antimafia che ha consentito di infliggere un duro colpo alla mafia catanese. Si è chiuso oggi uno tra i capitoli più importanti con la sentenza di primo grado del rito ordinario del processo. Tra gli imputati boss emergenti e picciotti del clan Cappello, frangia della famiglia Bonaccorsi in ascesa nell’ultimo decennio ai vertici della mafia in Sicilia orientale. La lettura del dispositivo, prevista per il 10 giugno, era stata rimandata per una questione di incompatibilità del giudice Mirabella.
La sentenza. I giudici della terza sezione penale del Tribunale hanno accolto la richiesta dell’accusa rappresentata dal sostituto procuratore Pasquale Pacifico e ha condannato Sebastiano Lo Giudice a 30 anni di reclusione e interdizione perpetua dai pubblici uffici per associazione mafiosa. 7 anni per Cosimo Tudisco, per il reato di concorso esterno. Francesco Finocchiaro dovrà scontare 4 anni e 8 mesi di carcere per associazione mafiosa, Roberto Sebastiano Viglianisi condannato a 2 anni (pena sospesa). Per Giuseppe Platania la pena è di 2 anni e 8 mesi.
Il tribunale ha assolto, invece, Concetto Bonaccorsi, Gaetano Laguzzi e Francesco Spampinato per non aver commesso il fatto.
Diversa la posizione di Natale Cavallaro, diventato collaboratore di giustizia e condannato a un anno di reclusione a titolo di aumento della pena già contenuta nella sentenza della Corte d’Appello di Catania del 31 Ottobre 2011.
Il rito abbreviato. Nel procedimento svoltosi davanti il gip Oscar Biondi nel giugno 2011 per altri componenti del clan c’era stata una pioggia di condanne. Per quarantuno dei quarantaquattro imputati infatti vennero combinate pene per oltre 400 anni di carcere. Tra loro capi e gregari della cosca accusati di associazione mafiosa, estorsioni, traffico di droga e dell’omicidio avvenuto in via Plebiscito a Catania, di Giuseppe Vinciguerra, cugino del sicario del clan Santapaola Orazio Magrì. Nella lista dei colpevoli era finito anche l’ex sottoufficiale dei Carabinieri Giuseppe D’Urso condannato a 7 anni e 5 mesi e accusato di rivelazione di segreto d’ufficio. Tra gli uomini arrestati nel 2009 c’erano anche Eugenio Sturiale e Gaetano D’Aquino, due boss di primo piano successivamente diventati collaboratori di giustizia rivelandosi fondamentali per numerosissime indagini della Dda etnea.
La riorganizzazione del clan Cappello. Il processo, che oggi ha avuto il suo ultimo atto in tribunale ha avuto origine da una complessa attività d’indagine risalente al febbraio 2007 con l’arresto di Cosimo Viglanesi, allora latitante ed esponente di spicco del clan nel quartiere “zia Lisa” di Catania. La cosca dei Cappello, secondo gli inquirenti, aveva messo in atto, con i suoi elementi di spicco, un vero e proprio tentativo di riorganizzazione delle proprie fila, destabilizzate dall’operazione “Titanic” che nel maggio 1998 portò a 121 arresti da parte delle forze dell’ordine. Il clan dei Cappello, come ribadito dall’ultima relazione semestrale della D.I.A., dopo essersi assicurato il controllo di buona parte dei quartieri periferici di Catania, avrebbe iniziato a insidiare il potere della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola perfino nell’aerea interna della città. Il clan prende il nome dal pluriergastolano Salvatore Cappello, arrestato nel 1992 in Campania ed erede del boss Salvatore Pillera “Turi cacheti”. Tra i principali affari del clan c’è il traffico e lo spaccio di droga che grazie ad un capillare controllo delle piazze catanesi, riesce a fruttare anche diverse migliaia di euro al giorno.
Nel processo, svoltosi con il rito ordinario, tra gli imputati eccellenti c’è il boss Sebastiano Lo Giudice “Ianu Carateddu”. Pluriergastolano e capogruppo dell’ala più sanguinaria della cosca. Recentemente condannato nel processo Revenge III era sfuggito inizialmente alla cattura e successivamente arrestato nel marzo 2010 durante un summit di mafia, con la partecipazione di alcuni fiancheggiatori all’interno di una stalla nel rione catanese di “San Cristoforo”. Il boss era riuscito negli anni, anche grazie ad una co-detenzione nel carcere di Bologna, ad accreditare il suo gruppo innanzi il gotha di Cosa nostra palermitana rappresentato da Calogero Lo Piccolo, fratello di Sandro, uomo d’onore del mandamento di “San Lorenzo” che insieme al padre Salvatore aveva preso in mano l’eredità di “Binnu”, Bernardo Provenzano.