Gli angeli del Roussy - Live Sicilia

Gli angeli del Roussy

Il viaggio della speranza
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Guardandolo dall’alto, ora che è possibile farlo con internet, l’ospedale Gustave Roussy di Parigi sembra una lunga, imponente, mano. C’è un grosso corpo centrale, il palmo, e cinque edifici minori intorno, le dita. In migliaia si sono aggrappati a quella mano. Tanti l’hanno tenuta stretta e si sono salvati. Tanti altri non hanno avuto la stessa forza, o fortuna, e sono scivolati via. Qualcuno c’è entrato di passaggio, per accompagnare un parente o un amico, qualcun altro non saprà mai che esiste questo che è considerato tra i più importanti centri oncologici del mondo. Mio padre, più di vent’anni fa, quel braccio riuscì ad afferrarlo ed io, che ancora bambino fui testimone di quella stretta di mano, un giorno entrai al Gustave Roussy.

Chi mette piede in un ospedale con la consapevolezza di avere a che fare con un tumore, sa come entra, ma difficilmente conosce con altrettanta certezza il modo in cui ne uscirà. Agli “ospiti” del Gustave Roussy può venire più facile intuirlo a seconda che siano pazienti di “terra”, pazienti di “mare”, o pazienti di “cielo”. Questa distinzione, che si traduce in altrettante zone dell’ospedale, si basa su un semplice rapporto tra lo stadio della malattia e le probabilità di sopravvivenza. Se la diagnosi è incoraggiante, e quindi si hanno maggiori speranze di restare aggrappati a questa terra, si verrà assegnati ad una zona: qui ci sono gli ambulatori e le sale operatorie. Se la malattia è in fase avanzata, e c’è il rischio che ci si perda nel proprio abisso personale, ne verrà assegnata un’altra: qui c’è la terapia intensiva. Se invece la lotta al cancro lascia spazio soltanto all’ultima speranza delle preghiere, sarà attribuita la terza area: qui c’è l’obitorio.

Soprattutto a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, sebbene fosse complicato e dispendioso farlo (ottenere il modello E112 che consente di farsi operare all’estero non è semplice oggi, figuriamoci 20 anni fa) erano tanti i malati di tumore che partivano dall’Italia, tantissimi dalla Sicilia, con la speranza di trovare in mani straniere la propria via di salvezza. Più che le sue mani, del professor Philippe Lasser, l’uomo che salvò mio padre, mi colpirono la statura, poco più che un metro e cinquanta, e le braccia, rivestite di una “drappeggio” impressionante di tatuaggi. Braccia in perfetta sintonia con gli orecchini che tempestavano i lobi del professore, allora trentaquattrenne, e con sua la pettinatura alla “breakfast club” che sovrastava il viso affusolato: è questo il ritratto di quello che tutt’oggi continuo a considerare uno dei miei eroi.

La visita di controllo cui doveva sottoporsi mio padre si protrasse per diverse ore. Così, insieme a mia sorella, impiegai quel tempo per girare sù e giù i quindici piani dell’edificio. La nostra insolita “gita” fu sorvegliata da una gentile infermiera dalla pelle d’ebano (ci spiegarono che per circa l’80% il personale paramedico del Gustave Roussy e composto da donne), che ci mostrò i diversi reparti. Fino a quello più in cima di tutti, quello all’ultimo piano: l’oncologia pediatrica. All’interno di quelle stanze i bambini più grandi si muovevano a bordo di piccole automobiline elettriche. Dietro ciascuna di esse era montata un’asta con la flebo per la chemioterapia. Nel momento esatto in cui la flebo finiva, la macchinina si fermava, si accendeva una luce rossa, e un infermiere correva a sostituirla con una nuova. Avevo 12 anni, e nella mia ingenuità infantile le uniche cose che pensai furono che non avevo mai visto tanti bimbi senza capelli, e che nessuno avrebbe potuto immaginare quanto desiderassi anch’io guidare quelle automobiline elettriche.

Verso mezzogiorno poi arrivò il clown “Ronald” di Mc Donald’s per tenere il suo spettacolino quotidiano per i piccoli pazienti. Non l’avevo mai visto in carne ed ossa, e invece era lì. Alto due metri, con una salopette gialla sopra una maglia a righe, e con scarpe e capelli rossi. Era esattamente come il pupazzo che avevo visto tante volte all’interno dei fast food. Mentre lui, circondato da quei bambini, distribuiva palloncini di tutti i colori, intrecciati a formare ora un cane, ora un fiore o una spada, io da dietro al vetro del reparto che mi separava da loro mi sbracciavo, ipnotizzato dai suoi gesti e dal suo sorriso enorme, dipinto sotto a quel grosso naso finto. Lo spettacolo finì e il clown andò via. Poco prima che le porte dell’ascensore si chiudessero davanti a lui, dalla posizione in cui mi trovavo, fui l’unico a poterlo vedere un’ultima volta: si stava togliendo la parrucca.

Scendemmo nuovamente, e nel primo pomeriggio ci ricongiungemmo con mio padre, che nel frattempo aveva completato la visita. Uscimmo dall’ospedale, pronti a “mordere” Parigi che ai miei occhi appariva come una deliziosa entrecote da gustare. Cenammo al drugstore sugli Champs Elysèes, e dietro quei vetri trafitti dalle luci accecanti del lungo viale parigino, mio padre mi domandò cosa avessi visto d’interessante. Sinceramente non ricordo se, e cosa risposi. Ma se fosse vero che quella domanda abbia “vagato” senza risposta per 17 lunghi anni, penso che oggi, forse, sia giusto renderle onore con una risposta: quel giorno vidi degli angeli; gli angeli del Roussy.

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