(Corriere della Sera) Rivela l’identità del prestanome di suo padre, Vito Ciancimino, e apre un inquietante scenario sulla famiglia di un alto magistrato antimafia. Elenca i soci occulti e palesi di politici in affari con l’ex sindaco di Palermo. Racconta di tre milioni di euro come “cassa” aperta alla vigilia delle europee del 2004. E fra le pieghe di questo nuovo look da quasi pentito Massimo Ciancimino, il rampollo del defunto Don Vito, sussurra un dubbio atroce: “Qualcuno potrebbe avere ucciso mio padre”. Una rivelazione choc estranea al processo d’appello per riciclaggio tenuto ieri a Bologna, ma consegnata con la copia di un verbale del ’93 ai due magistrati di Palermo che lo stanno interrogando sulla “trattativa” fra Stato e mafia: “Ho sempre avuto mille dubbi. Io ero in Sicilia quando lui morì a Roma, solo con la badante rumena poi subito espulsa dall’Italia. Era uscito quella mattina da una clinica per un check-up. Aveva visto il suo medico personale. Tutto a posto. Cosa accadde nel pomeriggio e la sera nessuno lo sa…”.
Forse non ha mai letto “La provincia dell’uomo” di Elias Canetti, ma Ciancimino junior fa riecheggiare la frase ripresa anche da Sciascia in epigrafe all'”Affaire Moro”: “Qualcuno è morto al momento giusto”. E lo dice vagando e sospettando su questa morte finora senza sospetti: “Sì, potrebbe essere stato ucciso al momento giusto…”. Dice e non dice, come da tradizione di famiglia, pronto a correggere e smentire, ma gelando i suoi eccellenti interlocutori, i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nino Di Matteo. Davanti a loro avrebbe tirato fuori un dimenticato verbale del ’93 quando l’allora procuratore Caselli, con lo stesso Ingroia vicino, provò a stanare Ciancimino padre. “Foste voi a chiedergli di collaborare, di saltare il Rubicone”, ricostruisce Massimo Ciancimino. E tira fuori il verbale: “Ecco la risposta di mio padre: ‘Quando Andreotti sarà condannato anche a un solo giorno, non disperate, verrò io a trovarvi’ “.
E il figlio di Don Vito s’aggrappa al calendario: “La prima condanna di Andreotti a Perugia per il processo Pecorelli è del 17 novembre 2002. E mio padre muore alle 5 del mattino del 19”. Poi, ancora più esplicito: “Quando al cinema ho visto il Divo ho pensato a tutto questo. Perché Andreotti, al di là della sua persona, forse era il simbolo che bloccava tutto…”. La suggestione potrebbe prevalere e il ragazzo non sa se andare fino in fondo: “So che per rispondere ai miei dubbi bisognerebbe riesumare il cadavere, ma darei un dolore infinito a mia madre, ai miei fratelli che mi rimproverano questo e altro, ‘Chi te lo fa fare?’ “. Ecco una pagina destinata ad alimentare una tempesta di polemiche. Come i temi rilanciati ieri a Bologna dentro e fuori l’aula. A cominciare dalla ricostruzione del «Tesoro Ciancimino» e dall’indicazione del presunto “prestanome”: “Faceva tutto Ezio Brancato, consuocero dell’alto magistrato della Direzione nazionale antimafia Giusto Sciacchitano. Finora non hanno indagato come si doveva su Brancato, nemmeno dopo il divorzio della figlia Monia…”.
E dopo questo attacco contenuto anche nei verbali del suo coimputato, Gianni Lapis, ecco i riferimenti alla composizione della “Gas”, il contenitore inventato da Ciancimino padre, una società venduta a un gruppo spagnolo per 112 miliardi di euro: “Oltre Lima, Calogero Pumilia e altri, nella compagine con o senza quote ufficiali c’era pure Carlo Vizzini, come mi disse mio padre”. Ricordi legati agli intrighi degli anni Ottanta: “C’era dietro un mondo democristiano e un pezzo del partito socialdemocratico. Davano la copertura politica alla Gas…”. E il suo avvocato Giuliano Dominici quasi lo blocca, prima dell’inizio dell’udienza, davanti a un gruppo di cronisti: “Ma ti stai zitto?”.