Sia questa una domenica d’amore, altrimenti avremo fallito. D’amore pallonaro, ricolmo di sfottò e dolcissimi veleni, di quella guerra figurata che diventa tenerezza sul campo di calcio, che include la lealtà e il senso di appartenenza, che confina col rispetto, con la simpatia per il tifoso sia pure avversario, perché in fondo egli – il giocoso competitore – condivide lo stesso cuore con una passione diversa.
Riconosciamolo col mea culpa, il calcio universalmente inteso non ha imparato nulla dalla morte di Filippo Raciti. Non è diventato più buono, più pulito e più bello. Il calcio ha avuto il suo martire, il suo ennesimo sacrificio umano. Ma ha perso l’occasione di trasformare il dolore in riscatto o in profonda riflessione. Peggio che sbagliare un rigore nella finale di Champions. Il calcio non va, perché è marcio. Diverte con la sua decomposizione la parte peggiore del pubblico pagante.
Sono marci i suoi dirigenti e i tifosi spesso non risultano lontani: tutti invocano la parola “giustizia” soltanto quando si ritengono parte lesa. Il rigore non dato è un affare di Stato. Il rigore regalato è una compensazione, o una furbizia da festeggiare con una strizzatina d’occhio. Il calcio è l’unico regno in cui uno come Moggi e i suoi rampolli possono comandare, più o meno al buio, e fare incetta di riverenze, piuttosto che di pernacchi. E’ l’esaltazione dell’astuzia, della non cultura. E spesso i calciatori sono lo specchio fedele di un mondo che continua a macinare soldi, nonostante la sua lapalissiana corruzione.
Che c’entra l’anima di Filippo Raciti? C’entra perché la sua morte, la fine di un poliziotto ucciso dal derby, rappresenta il frutto purulento e sanguinoso di una coscienza tribale diffusa. Nel pallone c’è violenza ad ogni livello. I felpati signorotti che lo governano usano la sopraffazione dei condizionali con cui – grazie alle telecamere degli amici – calpestano la verità. Ne discende una cascata di odio. In un mondo talmente rovesciato è perfino logico che l’infimo delinquente da strada afferri un oggetto qualsiasi e lo scagli. Tanto poi l’ipocrisia dirà che sono i pochi facinorosi che fanno male allo sport. Pietosa bugia. In materia, nessuno è escluso. Tutti, con la giacca o senza, nel segreto del nostro rancore desideriamo l’assassinio del nemico con la maglia di un diverso colore. I più attrezzati si limitano a immaginare ciò che i meno avvertiti eseguono. La violenza è nel calcio. Nella sua mancanza di senso comune, di valori e di etica. Il resto è un corollario di accadimenti.
Sia questa dunque una domenica d’amore, nella tolleranza reciproca di palermitani e catanesi che si vedranno allo stadio e nei dintorni. Anzi, sia un giorno di felice gemellaggio nel segno di una Sicilia migliore di come la descrivono. Niente insulti, niente scontri, niente proteste scomposte contro gli arbitri. Altrimenti avremo fallito e sarà meglio chiudere gli stadi per sempre. Meglio la doppia mandata eterna, per negare l’accesso alle belve feroci. Noi, che stiamo sugli spalti.