CATANIA. Peppino De Felice Giuffrida moriva esattamente cento anni fa nella sua casa di Aci Castello, “senza un soldo nella giacca”. Il sindaco di Catania per eccellenza, capo della Provincia e più volte parlamentare. Uno dei mattatori in assoluto della politica siciliana tra fine Ottocento e il primo ventennio del Novecento. Un rivoluzionario muscolare. Tra i capi del movimento dei Fasci siciliani, uno degli atti di nascita del socialismo italiano. Che coincide tuttavia con una delle pagine più drammatica della vicenda nazionale, segnata dalla durissima repressione voluta dal governo Crispi. De Felice subì la condanna a 18 anni di carcere (non scontata interamente a seguito della forte campagna popolare di solidarietà) per poi imporsi nella vita politica cittadina e nazionale.
L’innovatore
A Catania fu acerrimo nemico dei Carnazza. Una volta diventato sindaco ha reinterpretato completamente il ruolo della macchina municipale, trasformandola nella camera di compensazione dei conflitti sociali. Ma fu anche un innovatore e un visionario sotto il profilo urbanistico. Sognava infatti un grande boulevard che collegasse la stazione centrale agli scavi di piazza Stesicoro, una sorte di ponte tra il passato e il futuro del territorio. Fu uno dei primi a parlare dello sventramento di San Berillo, avvenuto molti anni dopo. Anche se la visione di De Felice fu realizzata soltanto in parte (e forse anche meno) e in maniere tutt’altro che lineare.
L’uomo
Internazionalista e patriota. Laico, ma devoto a sant’Agata. Pacifista, ma volontario in più guerre. Padre di famiglia devoto e “fimminaro”. Fu davvero complessa la figura di De Felice. Tanto da essere apprezzato oggi come allora dalla destra e dalla sinistra. Da Enzo Bianco e Nello Musumeci. Dal popolo e da re Vittorio Emanuele III. Un riformista che s’impose nel dibattito politico al fianco di Leonida Bissolati e Vincenzo Giuffrida.
Il giudizio di Giovanni Giolitti: “La mia impressione di lui – scriveva – è sempre stata che fosse un uomo di buonafede, un galantuomo che ha sempre vissuto modestamente; un po’ imaginoso ma fondamentalmente buono”. La socialista Anna Kuliscioff lo descriveva così: “De Felice è la sintesi, l’espressione vera e genuina, delle qualità e dei difetti di quella immensa popolazione. Anzi, direi ch’egli come tipo dell’ambiente riassume in sé in modo esagerato le tendenze basse ed elevate; perché il bello e il brutto si toccano e si confondono là con un’armonia meravigliosa… De Felice è il vero viceré; i baroni e i principi lo ossequiano, i facchini del porto lo abbracciano, gli operai delle zolfare si rivolgono a lui come al redentore, le ragazze allegre lo festeggiano al suo passaggio”.
Il viceré
Lo storico Giuseppe Astuto lo ha definito “il vicerè socialista”. Un sintagma che sintetizza perfettamente una personalità carica di sfumature. “Esiste – scrive Astuto – un filo conduttore dell’attività politica e amministrativa di De Felice? Rivoluzionario e riformista, come ormai si definisce a partire dall’età giolittiana, egli ha ritenuto sempre le organizzazioni di massa e il Comune come strumenti della partecipazione popolare e del cambiamento della vita economico-sociale. Con le sue contraddizioni e con i mutamenti nella linea politica, ha rappresentato il travaglio del socialismo in un’area, debole economicamente e gravida di contrasti sociali, che cerca, allora come oggi, la via per l’inserimento nella modernità”.