Mafia, sangue e vendette: il killer pentito alla sbarra - Live Sicilia

Mafia, sangue e vendette: il killer pentito alla sbarra

Pippo Di Giacomo, ex boss dei Laudani e mandante dell'omicidio Famà, è accusato di quattro delitti commessi tra il 1987 e il 1993.
IL PROCESSO ABBREVIATO
di
3 min di lettura

CATANIA – Tra gli anni 80 e 90 Pippo Di Giacomo ha condannato a morte decine di persone. Una follia omicida senza pari quella dell’ex capo e killer del clan Laudani, poi diventato pentito. A Catania è in corso un processo davanti al gup Oscar Biondi che vede il collaboratore di giustizia accusato di quattro omicidi da aggiungere alla lista – già lunghissima – per cui è stato già condannato. Come dimenticare che Di Giacomo è il mandante dell’agguato in cui perse la vita l’avvocato Serafino Famà il 9 novembre 1995. 

Quattro omicidi irrisolti commessi tra il 1987 e il 1993

Il prossimo 26 gennaio la pm Antonella Barrera formulerà la richiesta di pena nei confronti del collaboratore di giustizia discutendo fonti di prova e attività di riscontro su quattro omicidi rimasti irrisolti per oltre 30 anni. Fatti di sangue che evocano pagine dell’orrore di una storia criminale forse mai dimenticata. Soprattutto da chi l’odore di polvere da sparo ormai lo respirava con  inquietante quotidianità. 

Quelle parole che diventano una condanna a morte

Italo Benito Quinzio avrebbe commesso un errore fatale. Avrebbe sostenuto “la superiorità criminale del clan del Malpassotu”, quello cioè riferibile a Giuseppe Pulvirenti (killer e pentito di Belpasso, ormai deceduto), “rispetto alla cosca Laudani “Mussi i ficurinia”. Un’affermazione che sarebbe stata mal digerita da Gaetano Laudani, poi ucciso. Il boss avrebbe quindi ordinato l’omicidio di Quinzio, avvenuto il 25 febbraio 1992. Di Giacomo e Luigi Di Bella (morto, ndr) avrebbero teso una trappola alla vittima designata: “con un pretesto – si legge negli atti della magistratura – di dover discutere di una questione lo avrebbero fatto salire in macchina e si sarebbero recati in una zona isolata di Monte Serra a Viagrande”. Una volta fuori dall’auto, Di Bella avrebbe vigliaccamente sparato mentre Quinzio era di spalle. Due colpi in testa. Per la vittima non ha avuto scampo. 

L’agguato sotto casa

A Filippo Trivetti non è servito fuggire. La morte lo ha inseguito e trovato il 9 luglio 1993. La sua uccisione “avrebbe rafforzato e agevolato gli interessi criminali del clan Laudani”. L’omicidio di San Giovanni La Punta sarebbe stato organizzato nei minimi particolari. Antonio Calì avrebbe svolto un preciso sopralluogo a casa della vittima e avrebbe dato precise informazioni al commando armato, che sarebbe stato formato da Pippo Di Giacomo e Francesco “Masino” Grasso (ormai deceduto). Quest’ultimo avrebbe guidato la moto, mentre il killer armato sarebbe stato dietro in attesa dell’arrivo di Trivetti. Infatti, non appena l’uomo ha suonato al citofono ha sentito il rumore degli spari e ha iniziato a correre disperato. Di Giacomo lo avrebbe inseguito a piedi continuando a fare fuoco con la sua calibro 9. Le pallottole lo hanno trafitto alla schiena, Trivetti è caduto sul selciato. E lì, lo spietato boss dei Laudani avrebbe sparato i due colpi di grazia alla tempia. 

Scilicchia ucciso perché sarebbe stato un confidente

I Laudani sarebbero stati convinti che Salvatore Pappalardo, conosciuto come “Scilicchia”, sarebbe stato un confidente delle forze dell’ordine. E per questo andava punito. Pippo Di Giacomo, il 3 agosto del 1987, avrebbe eseguito gli ordini ancora una volta di Tano Laudani. L’agguato è avvenuto a Pennisi, frazione di Acireale. Pappalardo viaggiava in macchina quando è stato affiancato dai sicari. In quell’auto ci sarebbe stato Di Giacomo e alla guida Giuseppe Cosentino (deceduto). Il pentito avrebbe sparato con la sua (immancabile) calibro 9. Scilicchia è crivellato di colpi: alla testa, al torace e all’addome. 

Mai frequentare la moglie di un boss di mafia

Passano pochi giorni, è il 13 agosto 1987. Ad Aci Catena avviene l’assassinio di Salvatore Castorina, ammazzato all’interno di una macchina. Gaetano Laudani, ucciso nella guerra di mafia con gli Sciuto-tigna, non avrebbe perdonato alla vittima di aver “intrattenuto rapporti di frequentazione con la moglie durante la sua detenzione in carcere”. Un affronto e una mancanza di rispetto che secondo il boss mafioso merita la più crudele delle punizioni: la morte. Il commando armato sarebbe stato lo stesso di quello di Pappalardo. Di Giacomo e Cosentino (deceduto) si sarebbero avvicinati all’auto parcheggiata: a bordo insieme a Castorina c’era un altro uomo. Di Giacomo però non avrebbe sbagliato bersaglio: spari diretti alla testa e al torace di Castorina che è morto sul sedile di una Citroen. 

Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI