Pochi amarono Giovanni Falcone in vita. Al cospetto dei molti che non lo amarono, pochissimi, nessuno. Falcone era un uomo giusto e duro. Con l’esistenza addosso, respirava da incorruttibile e guardava il mondo con gli occhi di chi deve affrontare, ogni giorno, un aspro cammino. Sapeva che solo la morte l’avrebbe portato, per la sua facilità di commozione sincera e di retorica artefatta, nel cuore degli indifferenti e perfino nella considerazione dei nemici. Prima dell’exploit di Roberto Saviano, un grande scrittore italiano, Giommaria Monti, aveva già raccontato l’astio nei confronti del magistrato, l’antipatia profusa a piene mani dai suoi contemporanei (“Falcone e Borsellino, la calunnia, il tradimento, la tragedia”), o almeno il loro scarno discernimento. Un libro acuminato da sfogliare. Leggere per credere.
“Egli (Falcone, ndr) è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali” (Repubblica, 9 gennaio 1992 “Falcone che peccato!” di Sandro Viola).
“E’ una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo ed i maxi-processi, è approdata al più completo fallimento: sono Falcone e De Gennaro i maggiori responsabili della dèbacle dello Stato di fronte alla mafia… L’affare comincia a diventare pericoloso per noi tutti… dovremo guardarci da due Cosa nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma… Sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto” (Il Giornale di Napoli, 29 0ttobre 1991, “Cosa nostra uno e due” di Lino Jannuzzi).
Da destra e da sinistra, attacchi senza pudore. Il web è pieno delle registrazioni di puntate di trasmissioni trascorse, con le sbavature di Orlando, il parossismo di Cuffaro. Chi può sfogli le collezioni del “Giornale di Sicilia” di quegli anni e cerchi le firme di Vincenzo Vitale o Vincenzo Geraci. Troverà materiale significativo e per taluni agghiacciante. Come è stata piana e liscia la strada di una rinnovata verginità giornalistica.
Il grande inganno dell’amore collettivo per Giovanni Falcone è stato costruito a cadavere caldo. I suoi critici in buonafede sono stati sorpresi dall’amarezza e dal dolore sulla via della strage. Hanno trasformato la parola urticante, il dissenso, in preghiera per genuina compensazione. I cinici hanno apparecchiato il catafalco e si sono fatti prestare un fazzoletto pieno di lacrime. Tutto, affinché si dimenticasse il resto. Ma Falcone non è mai stato un giudice simpatico o popolare, nemmeno ai residenti del suo palazzo che si lamentavano per il fastidio della scorta. E c’erano quelli che vagheggiavano villette di vetri antiproiettile, fortilizi di periferia, in cui stipare magistrati molesti, con i mafiosi a piede libero. La scusa era l’ordine pubblico.
No, Giovanni Falcone non era amato in vita. Il nostro Paese ama gli onesti quando muoiono e non sanno nuocere più. Il giudice scannato in via Capaci visse da isolato, con la fedeltà di una donna che ne condivise il destino, con l’amicizia di Paolo Borsellino che l’avrebbe seguito.
Coloro che avversarono Falcone in buonafede dovrebbero semplicemente chiedere scusa. La storia ha distribuito torti e ragioni. Uno sbaglio che nasce dalla coerenza è sempre uno sbaglio. Ma si perdona per limpidezza e passione. Coloro che furono nemici consapevoli della verità dovrebbero sparire dalla vita pubblica. Eppure sono proprio loro gli ipocriti in prima fila. Si riconoscono subito nella foto di gruppo dell’anniversario. Sono quelli che spintonano per rubare la luce migliore dello scatto, dall’alba al crepuscolo di ogni 23 maggio.