Antiochia, Costa e Cassarà - Live Sicilia

Antiochia, Costa e Cassarà

Chi sono i tre eroi dell'antimafia di cui oggi cade l'anniversario della morte.

Roberto Antiochia
Agente di polizia, ucciso la mattina del 6 agosto del 1985 in via Croce Rossa. Aveva ventiquattro anni. I sicari entrarono in azione per assassinare Ninni Cassarà, vice capo della Mobile di Palermo. Quel 6 agosto era in ferie, ma si era offerto di accompagnare a casa il suo ex capo, che, dopo l’assassinio di Giuseppe Montana, aveva bisogno di protezione. Ma ad attenderli in via Croce Rossa c’era la morte. Illeso, invece, è rimasto un altro agente, Natale Mondo.

Ninni Cassarà
Funzionario della Squadra mobile di Palermo, ucciso a trentotto anni la mattina del 6 agosto 1985 in via Croce Rossa, a Palermo. Assieme a lui muore l’agente Roberto Antiochia. Negli anni Ottanta, Cassarà è uno dei collaboratori più stretti del giudice Giovanni Falcone. Da lui e dal capitano dei carabinieri Angelo Pellegrino vengono registrate le prime dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta. Ma prima ancora delle rivelazioni di Buscetta, Cassarà, che era stato capo della sezione investigativa, considerata il “cuore” di tutte le indagini sulla mafia, ha nei cassetti una radiografia delle cosche mafiose palermitane e dei collegamenti tra le varie famiglie. Cassarà non è uno che lancia messaggi o che manda a dire le cose. È così che fa nell’aula della Corte d’assise di Caltanissetta, durante un’udienza del processo per l’assassinio del giudice Rocco Chinnici. Dice che il magistrato “aveva manifestato il proposito di arrestare i potenti ex esattori di Salemi, Nino e Igrazio Salvo” .

Gaetano Costa
Procuratore della Repubblica, classe 1918, assassinato in via Cavour, a Palermo, la sera del 6 agosto 1980. Al processo, in Corte d’assise a Catania, arriva un solo imputato: Salvatore Inzerillo, palermitano, ritenuto il “palo” del commando assassino. Sono tre i pentiti che fanno il suo nome: Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno e Francesco Marino Mannoia. Buscetta e Contorno raccontano che il mandante sarebbe stato il cugino omonimo dell’imputato, cioè il boss Salvatore “Totuccio” Inzerillo, che non aveva tollerato l’arresto di una cinquantina di amici. Il pentito Mannoia, invece, riferisce di avere conosciuto i particolari dell’agguato dal boss Stefano Bontade. Mannoia parla di una vendetta, motivata dal fatto che il procuratore Costa aveva usato il pugno di ferro contro gli amici di Inzerillo, e perciò doveva essere punito. Per Mario Amato, pubblico ministero al processo catanese, la decisione del procuratore Costa di firmare quei cinquanta ordini di cattura contro mafiosi legati alle famiglia Spatola-Inzerillo era stata coraggiosa, soprattutto perché alcuni sostituti procuratori dell’ufficio di Costa si sarebbero rifiutati di controfirmare il provvedimento, lasciando la responsabilità solo sulle spalle del loro capo. Sono gli anni in cui il procuratore Costa inizia una serie di indagini sull’edilizia pubblica: la costruzione di sei scuole e i miliardi che girano attorno agli appalti. Partendo da quelle indagini e mettendo le mani tra i conti registrati in alcune banche, il magistrato si aspetta di arrivare ai vertici 85 di Cosa nostra. Ma viene bloccato per un’indagine diversa, che non ha nulla a che fare con l’appalto per la costruzione delle scuole. Il processo, aperto il 9 gennaio 1991, si conclude senza alcuna condanna. “Nell’omicidio ci fu la complicità del Palazzo. Gli assassini non si sono voluti trovare”, disse la moglie del procuratore, Rita Bartoli.

 


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