PALERMO – Il grande assente è il vincitore. Quando il presidente della Corte d’appello, Salvatore Di Vitale, legge il dispositivo che conferma l’assoluzione di Mario Mori e Mauro Obinu, il generale non è presente in aula, al bunker del carcere Pagliarelli di Palermo.
Il suo avvocato, Basilio Milio, gli fa sapere della vittoria tramite un banale sms, neppure indirizzato direttamente a lui ma al fidato Giuseppe De Donno. Mori aveva un impegno all’Università di Chieti che non ha voluto spostare. Fino a ieri era a Palermo. Con il senno di poi si potrebbe dire che era fin troppo sicuro dell’esito processuale. A dire il vero, aveva dato una prova ben più solida della sua tranquillità quando in primo grado decise, assieme a Obinu, di rinunciare alla prescrizione. Il sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio, invece, aveva derubricato la scelta come un colpo ad effetto per stupire chi doveva giudicarlo.
Patronaggio è seduto accanto al procuratore generale, Roberto Scarpinato. Quest’ultimo è il magistrato della rivoluzione, oggi resa inutile dalla sentenza, di sganciare il processo a Mori e Obinu da quello sulla Trattativa Stato-mafia. Si è spinto oltre, fino a ipotizzare nei confronti degli imputati il reato di favoreggiamento semplice, neppure aggravato dall’avere agevolato Cosa nostra. Il mancato blitz di Mezzojuso sarebbe stato un favore fatto a Bernardo Provenzano senza la necessità di considerarlo il capo di Cosa nostra.
“Speriamo che questa sentenza segni la fine di un accanimento giudiziario nei confronti del generale Mori che va avanti da anni”, spiega, emozionato ma lucido, l’avvocato Basilio Milio, legale del generale: “Abbiamo cominciato con la mancata perquisizione del covo di Riina, anche quella conclusasi con un’assoluzione, poi c’è stato questo processo e dopo ancora quello sulla trattativa che è ancora in corso. Speriamo sia finita qui. Quando parlo di accanimento – ha concluso – non mi riferisco a tutta la Procura, non sono tutti uguali”.
In serata Milio firmerà con il collega Enzo Musco una nota congiunta: “Questa sentenza non solo conferma il monumentale documento assolutorio di primo grado, ma esclude qualsiasi ulteriore ipotesi accusatoria avanzata in maniera traballante dalla procura generale – si legge -. L’ipotesi presuntiva e imprecisata – aggiungono -si è infranta in un attento lavoro di decostruzione da parte della difesa che ha ribattuto punto su punto la requisitoria della Procura generale. I due ufficiali, che hanno voluto sin dalle prime battute rinunciare alla prescrizione, hanno corroborato lo sforzo con dichiarazioni spontanee finali dove, con lucida determinazione, hanno tracciato la linea ultima di una verità storica per anni distorta e interpretata secondo criteri fuorvianti. Anche oggi – conclude la nota – la magistratura giudicante ha dimostrato di saper fare la differenza, attraverso percorsi sereni di valutazione ed apprezzamento degli elementi di accusa a disposizione senza teoremi, pregiudizi o presunzioni”.
Il processo, però, ha uno strascico. Il presidente Di Vitale e i giudici a latere Gabriella Di Marco e Raffaele Malizia decidono di trasmettere alla Procura i verbali di Mauro Olivieri, Francesco Randazzo, Pinuccio Calvi, Giuseppe Mangano, Roberto Longo e Sergio De Caprio (il Capitano Ultimo che arrestò Totò Riina, ndr) per valutare eventuali profili di falsa testimonianza. Sono i carabinieri protagonisti della vicenda di Terme Vigliatore che, assieme alla presunta mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso e alla mancata perquisizione del covo di Riina in via Bernini sono stati considerati dall’accusa episodi “seriali” che confermavano la propensione di Mori all’infedeltà.
Il 6 aprile 1993 i carabinieri spararono al figlio di un imprenditore di Terme Vigliatore, Fortunato Imbesi. L’episodio, per l’accusa, sarebbe stato finalizzato a mettere in allarme il boss Nitto Santapaola, che si nascondeva in zona, per farlo fuggire. Una tesi contestata dalla difesa dei carabinieri: Imbesi fu scambiato per il boss palermitano Pietro Aglieri, all’epoca ricercato.
*Aggiornamento ore 19.29
“Questa nuova assoluzione è un ulteriore passo avanti per dimostrare la mia innocenza rispetto alle accuse che mi vengono rivolte e soprattutto mi restituisce l’onorabilità come uomo e ufficiale dei carabinieri a cui tengo moltissimo. Sono estremamente soddisfatto”. Così Mario Mori ha commentato, sul sito wwww.lookoutnews.it, la conferma, in appello, della sua assoluzione nel processo in cui era imputato di avere favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano.