Astensionismo, violenza e tecnologia: la nostra libertà è a rischio?

Astensionismo, violenza e tecnologia: la nostra libertà è a rischio?

Quei segnali inquietanti delle nostre democrazie

In politica, come è noto, si vince e si perde. Alla fine delle recenti tornate elettorali, dopo la vittoria del campo largo del centrosinistra in Sardegna, il candidato del centrodestra si è confermato alla guida dell’Abruzzo. Al di là dei commenti trionfali dei contrapposti schieramenti, due considerazioni sono d’obbligo.

Astensionismo e rappresentanza

Il fenomeno astensionismo lampeggia incessantemente, come un faro che avverta i naviganti del pericolo, primo tra i problemi istituzionali del nostro Paese. L’affluenza alle regionali sarde si è attestata al 52,4%, in calo rispetto al 53,74% del 2019: su 1.447.753 aventi diritto hanno votato solo 758.252 cittadini. In Abruzzo l’affluenza è stata del 52%, un punto in meno che alle regionali del 2019. Ma il vero problema non sono le flessioni contingenti, quanto il fatto che circa metà degli aventi diritto non va proprio più a votare, confermando il trend negativo di una disaffezione alle urne costante da anni in Italia, che dovrebbe preoccupare i politici, piuttosto che essere strumentalizzata per giochi di potere.

La seconda nota riguarda la scarsità numerica della rappresentanza femminile. Pur se la Sardegna vanta una Presidente, affiancano Alessandra Todde nel Consiglio Regionale, composto da 60 membri, solo 10 donne (nel corso delle precedenti elezioni erano 8), circa il 16% del totale dei consiglieri. I dati non cambiano di molto in Abruzzo, ove su 29 componenti del Consiglio sono stati eletti 26 uomini e 3 donne, e qui il dato è addirittura in diminuzione rispetto alle 5 donne elette nel 2019.

Le prossime elezioni

Prossime tappe elettorali, per due coalizioni con rapporti di forza diversi al loro interno, saranno le regionali in Basilicata e in Umbria. Poi, oltre 400 milioni di elettori, in 27 Paesi dell’UE, dovranno votare per rinnovare il Parlamento Europeo. L’Olanda aprirà le urne il 6 giugno, seguita il 7 dall’Irlanda, giorno 8 da Repubblica Ceca, Lettonia, Malta e Slovacchia, mentre in tutti gli altri Paesi (in Italia si potrà votare dalle ore 14 alle 22 di sabato 8 e durante la domenica) si voterà il 9. Nel medesimo giorno in Belgio si svolgeranno anche le elezioni per rinnovare i Parlamenti federale e regionale.

In effetti il 2024 è stato definito l’anno “più elettorale” di sempre, al punto che potrebbero risultare ridisegnati gli equilibri politici mondiali. Sono chiamate al voto 2 miliardi di persone in 76 Paesi, tra i quali nazioni cruciali dal punto di vista geopolitico, come India, Indonesia, Bielorussia, Iran, Russia, Taiwan e Regno Unito. Chiuderanno in bellezza, si fa per dire, l’annus electoralis, gli Stati Uniti: il 5 novembre 2024 gli americani sceglieranno il loro presidente. Biden e Trump sembrano destinati a duellare come nel 2020: secondo Federico Rampini, che non ha mezzi termini, “la scelta è tra un deficiente e un delinquente”.

Il duello tra Biden e Trump

Dietro il brutale assioma, appare chiaro che se Biden ha problemi con l’età, l’economia disastrata e la politica filo-israeliana sgradita a metà dell’elettorato, neanche Trump – nonostante il ciuffo ribelle – è un giovincello (compirà 78 anni a giugno, contro gli 81 di Biden: i candidati più vecchi dell’intera storia americana). Per tacere dei guai giudiziari, è responsabile di aver creato, col rifiuto di riconoscere la vittoria di Biden e senza dimenticare l’assalto dei suoi sostenitori al Congresso del 6 gennaio 2021, un vulnus nella democrazia americana apparentemente insanabile, determinando nei fatti un “anti-sistema” che la mina alle fondamenta, con conseguenze per buona parte del mondo.

Il rischio, anche negli USA, è che gli elettori delusi non votino. È l’altra faccia della democrazia? Certo la vittoria di Trump, dopo uno scontro elettorale inesistente, proverebbe che gli americani non ne possono più di corvée internazionali non controbilanciate dalla soluzione dei problemi interni. Solo una recuperata “questione morale” potrebbe sconfiggerlo.

Un mondo ingovernabile?

Ma davvero, nonostante si voti in mezzo mondo, i destini di quattro miliardi di cittadini cambieranno? Non si può prevedere il futuro, ma con buona approssimazione è dato di comprendere come oggi interessi molto di più un “controllo da remoto” che una vera presenza sul campo, e forse è proprio questa la lezione che gli Stati Uniti hanno assorbito negli anni, rispetto alla occupazione di un territorio straniero col ritorno del rischio terroristico in patria: che sia più proficuo utilizzare la straordinaria tecnologia contemporanea scegliendo, anziché un dominio “fisico”, un controllo globale a distanza che comunque governi il sistema internazionale.

Come sempre sopravanzando i tempi, la letteratura e una vasta filmografia prospettano da decenni una robotica evoluta, che gestisce gli armamenti, prevede i comportamenti criminali, si sostituisce alle forze dell’ordine, e supercomputer in grado di interagire col genere umano e con l’intero pianeta. La realtà sta superando ogni apocalittica fantasia?

E in un mondo che appare ingovernabile, a quali ruoli attribuiremo nuove responsabilità, chi si farà carico del mantenimento di una pace agognata e mai raggiunta? Il problema rimane sempre lo stesso, apparentemente insolubile: come arginare la violenza con sistemi non violenti.

Si parla tanto di sovranismo. La sensazione, piuttosto, in un Paese ove le proteste sono sempre più diradate e asfittiche nell’oceano del conformismo (in massima parte conculcato dai social) è che nella impossibilità di organizzare ed esprimere il dissenso per tutto quello che non va, dalla sanità ai morti sul lavoro, sia impossibile immaginarsi liberi e meno che mai sovrani.


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