PALERMO – I lampeggianti delle gazzelle dei carabinieri illuminano le stradine. Centinaia di militari bussano alle abitazioni per notificare sessantadue ordini di arresto. Finisce in carcere un piccolo esercito bene armato e capace di tenere sotto scacco due grosse fette di territorio.
Il vecchio che avanza
A reggere i fili della nuova Cosa nostra sono due padrini ottantenni. Mario Marchese, classe 1939, sarebbe alla guida del mandamento di Villagrazia-Santa Maria di Gesù. Gregorio Agrigento, classe 1935, avrebbe preso le redini a San Giuseppe Jato. Ai loro ordini si muoveva un esercito di una cinquantina di persone. Sono tutti finiti in carcere nel blitz dei carabinieri del Gruppo di Monreale e del Ros di Palermo.
Caccia al tesoro di Bontade. Pizzo: nessuno denuncia
Pizzo e danneggiamenti ma anche, e soprattutto, investimenti. C’è tutto il repertorio tipico di Cosa nostra nell’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Con i soldi di clan, nel corso degli anni, sarebbero state avviate o rilevate alcune imprese. I titolari, inizialmente vittime, avrebbero scelto di mettersi in affari con i boss. “Come mi devo comportare”, chiedeva uno di loro al cospetto di un boss. E così contestualmente agli arresti stamani è stato notificato un decreto di sequestro per attività commerciali, imprese e beni immobili. Le indagini ci dicono che da qualche parte sono ancora nascosti i tesori delle famiglie mafiose. I nuovi arrestati parlavano di proprietà da spartire che risalivano alla stagione di Stefano Bontade, il principe di Villagrazia.
Marchese: dal maxi processo alla guida del clan
Il tutto sotto la supervisione di due nomi noti agli investigatori. Provengono dal passato, ma è nel presente che avrebbero fatto sentire il loro peso. Mario Marchese era già imputato nel primo maxi processo alle cosche. In realtà di lui si parlò ancora prima, nel 1981. Si disse che era riuscito a scappare al blitz di Villagrazia. I poliziotti fecero irruzione in una villa e furono accolti dalle pistolettate di chi dentro discuteva di affari di droga. Tra i presenti anche Benedetto Capizzi che, diventato successivamente il capomafia di Villagrazia, sarebbe stato arrestato nel blitz Perseo del 2008. Si era spacciato per malato e scontava l’ergastolo per omicidio agli arresti domiciliari. Nel frattempo provò a riorganizzare la cupola di Cosa nostra. Sono sempre stati grandi amici Capizzi e Marchese. Il primo lo scagionò dicendo che Marchese gli aveva prestato la macchina. Ecco perché l’auto era parcheggiata davanti alla villa del blitz di Villagrazia. Marchese poi fece giungere in Procura, mente era latitante, la prova che il giorno dell’irruzione era dal medico a curarsi.
Agrigento: assolto grazie a un cavillo
Nella lista degli arrestati del blitz denominato Perseo c’era anche il nome di Gregorio Agrigento. Per tutti era “lo zio”. Il suo nome saltò fuori nei dialoghi intercettati fra Pino Scaduto, capomafia di Bagheria, e Nino Spera di Belmonte Mezzagno. Nel piano di riorganizzazione della nuoca mafia a Rosario Lo Bue era toccato Corleone, mentre “lo zio Agrigento… ha la sua famiglia bella sistemata…” dicevano facendo riferimento a San Giuseppe Jato. Solo che le intercettazioni furono dichiarate inutilizzabili per un difetto di procedura. Risultato: nonostante la pesante accusa Agrigento fu assolto con sentenza divenuta definitiva.
Interessi intrecciati
Le indagini coordinate dal procuratore Lo Voi, dagli aggiunti Agueci e Teresi e dai sostituti Del Bene, Demonits, Luise, Mazzocco e De Flammineis, riguardano solo apparentemente due mandamenti che nulla avrebbero in comune. Ed invece già nel 2013 i carabinieri del gruppo di Monreale fecero emergere che i boss di Villagrazia e San Giuseppe Jato si erano contesi il controllo sulla famiglia di Altofonte, rimasta appannaggio del clan di Agrigento. Fra i due mandamenti c’era, però, un intreccio di interessi e non sempre filava tutto liscio. Secondo Marchese a Gregorio “gli è partito il cervello”, diceva contestando il fatto che l’anziano padrino gli aveva fatto giungere un’ambasciata con “un picciutteddu”, un ragazzino che neppure conosceva.
L’omicidio
Il controllo sul territorio era capillare. E così quando nel 2013 fu assassinato un anziano uomo d’onore di Villagrazia, Giovan Battista Tusa, prima ancora che si consegnasse il cognato della vittima, qualcuno si sentì in dovere di avvertire Marchese: non era un delitto di mafia, nessuno aveva osato premere il grilletto senza la sua autorizzazione.