Borsellino: ergastolo ai boss | Condannati i falsi pentiti - Live Sicilia

Borsellino: ergastolo ai boss | Condannati i falsi pentiti

La strage di via D'Amelio. Accuse prescritte per Scarantino. I verbali trasmessi ai pm.

CALTANISSETTA– La corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Antonio Balsamo, ha condannato all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i 5 uomini della scorta. Condannati a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. I giudici hanno, però, dichiarato estinto per prescrizione il reato contestato a Vincenzo Scarantino, il primo a innestare la catena delle menzogne. Solo che, secondo la Corte d’assise, il picciotto della Guadagna sarebbe stato indotto da qualcuno a mentire. Ci sarà, dunque, un’appendice di indagine.

Madonia, capomafia palermitano della cosca di San Lorenzo, sarebbe stato tra i mandanti dell’attentato. Tutino, invece, avrebbe partecipato alla fase esecutiva della strage. I falsi pentiti sarebbero autori del depistaggio che ha portato alla condanna di sette innocenti per i quali, dopo il passaggio in giudicato del verdetto emesso oggi dalla Corte d’assise, sarà avviato il processo di revisione, già chiesto dalla procura generale di Caltanissetta. Le accuse dei falsi collaboratori di giustizia Pulci e Andriotta sono state fondamentali per le loro condanne: da qui la contestazione della calunnia. Stesso reato contestato a Scarantino al quale, però, i giudici della Corte hanno riconosciuto la circostanza attenuante di essere stato indotto a mentire: la concessione dell’attenuante ha comportato la prescrizione del reato. Ai familiari delle parti civili – i parenti del magistrato ucciso e degli uomini della scorta – sono state liquidate provvisionali immediatamente esecutive comprese tra i centomila e i cinquecentomila euro ciascuno.

La Corte d’assise ha trasmesso alla Procura di Caltanissetta i verbali delle udienze affinché valuti se in alcune deposizioni – non è stato specificato quali – si possano ravvisare profili di reato e se ci siano elementi per nuovi spunti di indagine.

La storia dei processi

Sono passati venticinque anni dalla strage di via D’Amelio. Venticinque anni in cui si è assistito al crollo del castello giudiziario costruito sulle menzogne dei pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci. La sentenza di Caltanissetta è un’importante tappa nel tentativo di rimettere le cose a posto per onorare la memoria di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Al processo Borsellino quater le contraddizioni sono state messe a nudo. Indagini quanto meno sbagliate, ergastoli ingiusti, ritrattazioni e ritrattazioni delle ritrattazioni. Magistrati e investigatori faccia a faccia in aula con i finti pentiti. È stata la saga dei “non ricordo”. Ognuno è rimasto arroccato sulle proprie, e inconciliabili, posizioni. I pentiti a sostenere di essere stati costretti con la violenza a raccontare una montagna di falsità. E i poliziotti e i magistrati a difendere la loro onorabilità.

E dire che in tanti avevano urlato che la giustizia stava andando a sbattere. Pentiti dall’attendibilità certificata come Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera dissero di non conoscere neppure Scarantino. Come avrebbe mai potuto un picciotto della Guadagna dalla pessima reputazione partecipare alla riunione in cui fu deliberata la strage? La moglie di Scarantino scrisse alle massime autorità dello Stato per dire che il marito era un visionario. Gli avvocati dei sette imputati che sarebbero stati condannati all’ergastolo e un ventennio dopo scagionati urlavano la mancanza di riscontri alle dichiarazioni dei pentiti. E quando Scarantino ammise di essersi inventato tutto, la sua ritrattazione finì per essere spacciata come la prova che la mafia, colpita al cuore, tentava di zittire l’uomo che ne aveva svelato i segreti.

C’è voluto un altro pentito, Gaspare Spatuzza di Brancaccio, per smascherare le bugie e fare emergere che anche il suo clan aveva partecipato all’eccidio. Le parole di Scarantino, fino al pentimento di Spatuzza, erano state considerate Vangelo per una lunghissima stagione di processi. La sua credibilità è arrivata fino in Cassazione. Eppure il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, applicata a Caltanissetta fra il ’92 e il ’94 per indagare sulle stragi, era venuta in aula a ribadire che il pentimento di Scarantino era un bluff. E lo aveva messo per iscritto sin dalle prime battute investigative: “Con il collega Roberto Sajeva mettemmo nero su bianco le nostre perplessità, scrivemmo che si stava imboccando una pista pericolosa, lo dicemmo al procuratore Tinebra, ai colleghi Anna Palma e Nino Di Matteo, lo segnalammo in una nota inviata anche alla Procura di Palermo”. “Nei primi interrogatori abbiamo ritenuto che le dichiarazioni di Scarantino fossero genuine. Solo dopo abbiamo intuito che fossero inquinate”, disse Di Matteo, citato come testimone.

Perché le bugie di Scarantino furono prese per oro colato? I confronti disposti nei mesi scorsi dalla Corte d’assise non hanno fornito la risposta. Scarantino ha raccontato dei pestaggi subiti. L’ex moglie, Rosaria Basile, ha parlato di un verbale che Anna Palma avrebbe scritto a suo piacimento, ma che il magistrato non ricordava neppure di avere fatto. Il pentito sbugiardato raccontò che gli misero una pistola in bocca per ottenere la ritrattazione della ritrattazione. “È inverosimile”, replicò il poliziotto Mario Bo, con un sorriso di scherno.

“Io l’ho detto a Ricciardi (Vincenzo Ricciardi, altro poliziotto del pool di investigatori agli ordini di Arnaldo La Barbera, ndr) che della strage non sapevo niente”, disse Scarantino, indicando in un lido di Jesolo il luogo dell’incontro. “Mai incontrato”, tagliò corto Ricciardi.

Ed è in questo contesto che hanno lavorato i pm di Caltanissetta Nico Gozzo (oggi alla Procura generale di Palermo) Stefano Luciani e Gabriele Paci, di recente coordinati dal neo procuratore Amedeo Bertone. Sono stati loro a dimostrare che lo Stato aveva condannato ingiustamente sette persone all’ergastolo e a chiedere la condanna per strage dei boss Tutino e Madonia e di Scarantino, Andriotta e Pulci per calunnia.

Nella babele dei processi Borsellino si sono salvati gli ergastoli e le condanne del processo ter inflitte a Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo il “corto” e Salvatore Biondo il “lungo’”, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto ”Nitto” Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera, Antonino Giuffré, Stefano Ganci, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Giovambattista Ferrante.

Le parole degli avvocati Rosalba Di Gregorio e Giuseppe Scozzola, parte civile in difesa di due degli ergastolani scagionati, fotografano meglio di altre la situazione: “Abbiamo sentito in questo processo una sfilza di magistrati e poliziotti. Ma nessuno è venuto a dire ‘scusateci, abbiamo sbagliato’, hanno tutti difeso il loro operato ed è questa la cosa che dà più fastidio. Avrebbero dovuto chiedere scusa agli imputati che si sono fatti ingiustamente e inutilmente anni di galera al 41 bis. Avrebbero dovuto chiedere scusa ai familiari delle vittime, che fino a oggi non hanno ottenuto la verità reale sui fatti, e avrebbero dovuto chiedere scusa al popolo italiano”.

Senza risposta resta un altro interrogativo. Se davvero Scarantino sia stato costretto a mentire saremmo in ogni caso in presenza di una verità monca. Il giudice nei mesi scorsi, infatti, ha archiviato l’inchiesta nei confronti dei poliziotti Vincenzo Ricciardi, Mario Bo e Salvatore La Barbera, tutti e tre componenti del cosiddetto pool Falcone-Borsellino. “Trattasi – scriveva il gip riferendosi alle parole dei pentiti – di dichiarazioni caratterizzate da contraddizioni prive della pur minima convergenza”. Per il magistrato, inoltre, difficilmente le “verità” degli ex collaboratori di giustizia avrebbero potuto reggere al vaglio del dibattimento. Inutile sarebbe stato riascoltare i pentiti il cui vero spessore rimane buio”. Da qui la trasmissione degli atti alla Procura decisa dalla Corte d’assise. Si deve continuare a indagare.

 

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