di MARCO RIZZO
La mattina del nove maggio 1978 i carabinieri avevano smesso di ronzare intorno a quel fosso maledetto, tra i binari divelti e gli amici increduli. Una strana lettera ritrovata durante una perquisizione di poche ore prima sembrava confermare quello che i militari erano portati a pensare: Peppino Impastato, giovane attivista politico, animatore radiofonico, giornalista, poeta e autore satirico di Cinisi, si era ammazzato: “Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo e come rivoluzionario. Non voglio funerali di alcun genere, dal punto di morte all’obitorio. Gradirei tanto di essere cremato e che le mie ceneri venissero gettate in una pubblica latrina della città, dove piscia più gente. Addio. Giuseppe”.
A nulla valevano le proteste dei compagni di lotta accorsi sul posto: ricordavano ai carabinieri l’evidente contrasto con il sanguinario boss Tano Badalamenti (signore del traffico di droga e degli appalti), mostravano una pietra insanguinata usata per ferire il presunto terrorista, sottolineavano dinamiche molto poco coerenti con l’indole di Peppino.
Quando le forze dell’ordine avevano lasciato il posto, alcuni compagni di Peppino Impastato si erano dedicati a un rituale macabro ma necessario. Con dei sacchetti per la spesa, avevano percorso in cerchio l’area intorno all’esplosione che aveva devastato il corpo dell’amico, raccogliendo pezzi del suo corpo. Pezzi che erano finiti a 300 metri dal punto dello scoppio, causato con gli stessi materiali esplosivi usati nelle cave tra Palermo e Alcamo per fare saltare in aria il granito.
Tra i cittadini di Cinisi, la notizia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, nonostante tutto, passava in secondo piano nonostante monopolizzasse in quelle ore tutti i canali di informazione. Peppino Impastato, quel ragazzo che da almeno 15 anni disturbava l’omertosa quiete del paese, “si fumava le canne”, “faceva il pazzo”, si diceva “comunista” era stato ammazzato. O si era fatto saltare in aria?
Nelle tante Cinisi sparse per il Bel Paese, la verità viene abilmente manipolata dai mafiosi con metodi e fini che farebbero arrossire i più scafati direttori di giornali e telegiornali dei nostri tempi. La voce che girava per il paese era che quel “pazzo” si fosse legato ai binari con delle cariche di tritolo: voleva fare un attentato, farsi saltare in aria insieme a chissà quanti poveri cristi che ogni mattina prendono il treno Trapani-Palermo. Il gesto scellerato di un brigatista, anche secondo il verbale che qualche giorno dopo avrebbe redatto il maggiore Subranni: “Peppino Impastato si è suicidato compiendo scientemente un attentato terroristico”.
La mafia, come periodicamente osa fare con i martiri che camminano e quelli già sottoterra (da Giovanni Falcone a Don Peppe Diana, da Roberto Saviano a Don Pino Puglisi), costruisce spavaldamente montature per ricoprire di fango i propri nemici, per svilire la forza dei loro messaggi e apparire allo stesso tempo impuniti e impunibili. E non poteva esimersi da applicare la stessa strategia su chi aveva definito la mafia “una montagna di merda”. Giuseppe Impastato era figlio di un connivente mafioso e di una donna che segretamente prima, coraggiosamente e apertamente poi, ha lottato per la verità e la dignità.
Se oggi possiamo onorare e ricordare la figura e gli ideali di Peppino Impastato che ieri avrebbe compiuto 62 anni, lo dobbiamo a l’opera paziente e combattiva della madre Felicia Bartolotta, del fratello Giovanni, del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” e della Casa Memoria di Cinisi. Con una forza di volontà invidiabile, per ventitre anni hanno affrontato carabinieri disonesti, le istituzioni indifferenti e la giustizia impacciata, per arrivare finalmente alla condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti, alias “Tano Seduto”. Un nome che gli aveva affibbiato Peppino, ridicolizzandolo e sminuendone la carica di minaccia, dagli arroventati microfoni di Radio Aut.