Il cuore non batte la classe - Live Sicilia

Il cuore non batte la classe

Oltre i bianconeri di Conte e un 'Barbera' pieno di sostenitori del club piemontese i rosa non riescono nell'impresa. Oltre il cuore del solito capitan Miccoli e le parate di Ujkani il Palermo non riesce ad andare.

IL PROCESSO DEL LUNEDì
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PALERMO – Si sono scatenati tutti gli elementi della natura per accogliere la Juve: freddo, vento, pioggia battente e un pubblico “misto”. Insomma, niente di buono e la partita non è nemmeno cominciata. Pure il tifo – la nostra ultima risorsa – ci nega l’aiuto necessario perché dagli spalti arriva quasi più forte l’urlo juventino che quello rosanero. Urlo che diventa boato appena fa il suo ingresso sul terreno di gioco lui, il redivivo, il capro espiatorio, la  vittima designata e chi più ne ha più ne metta per descrivere, dal versante bianconero, la sanzione dei quattro mesi di squalifica comminatagli dalla giustizia sportiva: Antonio Conte torna in panchina e lo fa a braccia levate per salutare i suoi tifosi, che si sgolano per lui, intonano cori e canti e lui quasi si commuove, sventola le mani , poi si gira per raccogliere qualcosa in panchina, forse l’ennesimo amuleto.

E anche alle spalle si trova assediato, amorevolmente assediato, dai suoi fans, stringe una mano dopo l’altra e sorride beato. Lui la partita sembra averla già vinta: quella personale di sicuro, quella dei novanta minuti… invece pure. Perché – lo ripeto – palla a centro e non si capisce bene se la sua Juve sta giocando in casa o in trasferta. Davvero non si capisce ed è questa la nota più dolente della partita: che contro uno squadrone così non si possa contare neppure sul fattore campo.

Eppure l’inizio dei rosanero è veemente e Miccoli fa pure gol ma è in fuorigioco per un’inezia: la Juve sembra contratta, i suoi oliatissimi meccanismi sembrano inceppati, Pirlo marcato a vista e Vucinic aggredito appena toccata palla, non consentono alla squadra bianconera di sviluppare le sue trame di gioco preferite, fatte di corsa e peso specifico ma anche di fantasia e di inventiva. Così il primo tempo sembra equilibrato e finisce, come è giusto, 0-0. Ma c’è la ripresa, che non finisce mai quando il tuo avversario ti è superiore non solo per tecnica e forza fisica ma anche per i 21 punti con i quali ti sovrasta in classifica.

C’è il cuore, tanto cuore, da una parte e la classe, tanta classe, dall’altra, e nel calcio puoi correre quanto vuoi, sputare l’anima, perfino morire su ogni palla, ma nove volte su dieci a quelli della classe pura basta un tocco, un guizzo, una genialiata e .. toc, tutto il sudore che hai gettato fino a quel momento non ti è servito a nulla. Così è successo ieri sotto i tuoni e i lampi di un pomeriggio, più che siculo così nordico, che neanche nella brumosa Torino, dove loro, i giocatori juventini, sono abituati a giocare. E’ successo che Vucinic, all’inizio della ripresa, con una sublime invenzione (un fantastico colpo di tacco) ha smarcato, solo davanti a Ujkani, il grezzo ma possente Liechesteiner, che non ha avuto difficoltà a infilare la porta rosanero: 1-0 per la Juve e il cielo che, se possibile, si fa ancora più nero: calano le tenebre sul “Barbera” e si capisce subito che la partita si è ormai avviata verso la sua amara conclusione. Lo si capisce a tutte le latitudini, tranne, naturalmente, a quella degli intemerati cuori rosanero, che, come speravano prima, sperano ancora in un sussulto rosanero che rovesci le sorti del match.

Speranza vana che si brucia nello scorrere di qualche minuto, quanto basta a Morganella per commettere due falli, plateali quanto inutili, e farsi cacciare fuori dal campo. Ed ora, non solo in svantaggio di un gol ma anche di un uomo. E non contro un avversario qualsiasi ma contro la capolista, che nelle ultime sessanta partite, o giù di lì, ha perso solo tre volte.

Succede così che, già a mezzora dalla fine, la partita sia già …finita, anche se Gasperini dimostra di non crederci e mette dentro Dybala per Donati, cercando quindi un atteggiamento più coraggioso e facendo seguito all’innesto, ad inizio ripresa, di Brienza al posto di Pisano, quando ancora la partita era ferma sullo 0-0. Intenzione lodevole ma vana perché la Juve pigia ancor di più sul pedale per chiudere la partita e se non ci riesce il merito spetta tutto alla generosità dei rosa, mai domi, e alle prodezze di Ujkani, sicuramente, con Munoiz, il migliore in campo.

Succede pure che perdiamo per 1-0 le ultime due partite contro due “giganti” del campionato – Inter e Juve –  e in entrambe le occasioni lo facciamo con l’onore delle armi, che gli stessi avversari ci riconoscono. Purtroppo, però, i complimenti non portano punti in classifica: per quelli ci vogliono i gol e per fare i gol ci vogliono i giocatori, non “il” giocatore, perché Miccoli se può bastare una volta, magari contro il Catania, per le altre volte non basta. E si finisce inevitabilmente nelle secche della classifica, là dove ci si sente soffocare e non  è solo un’impressione, perché lottare per sopravvivere è così difficile che, se non ci sei abituato, anche le cose più semplici diventano colpo proibitive. Ma io un raggio di sole in questa domenica tempestosa l’ho intravisto lo stesso ed è stata la voglia di battersi che hanno avuto i nostri ragazzi dal primo all’ultimo minuto, perché non si sono mai rassegnati e, pur in inferiorità numerica, hanno lottato su ogni palla, come se ci credessero ancora.

E questo, io dico, è un buon segno, perché, giocando così a Udine, senza paura e senza mai tirare indietro la gamba, possiamo prenderci quello che, obiettivamente, pretendere di fare con la Juve era un po’ azzardato. Ed infatti, che il Palermo si era mirabilmente battuto fino all’ultimo respiro si capisce dalle manifestazioni di giubilo sfrenato di Conte e dei suoi, al fischio di chiusura di De Marco. A guardarli, sembrava avessero battuto il Barcellona e non il povero Palermo, ovvero un avversario tecnicamente così modesto e così lontano in classifica da sembrare disputare un altro campionato. Quello che, senza i giusti rinforzi al mercato di riparazione, mi duole dirlo, saremo costretti a disputare.


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