PALERMO – Il braccialetto elettronico ai polsi dei fratelli Cassina suona come il de profundis per la storia della famiglia che più d’ogni altra in Sicilia ha incarnato il dogma del potere dal dopoguerra ad oggi. Mezzo secolo di storia che si incrocia pericolosamente con fatti e misfatti dell’isola, dalla mafia ai crack finanziari delle banche siciliane, dagli appalti agli omicidi politici. Una semplice analisi storiografica potrebbe ridurre il ruolo di Duilio e Luciano Cassina al semplice ruolo di “figli” del cavaliere Arturo, patriarca di una famiglia di costruttori che da Cernobbio decise di trasferirsi in Sicilia nel lontano 1938. Ma le cronache, anche quelle giudiziarie, raccontano una storia diversa.
Così, per comprendere il potere assoluto di una famiglia lombarda che mise radici in Sicilia, basta ricordare le frequentazioni di Luciano Cassina, sin dai tempi della scuola, da studente del Liceo Gonzaga, dove tra i banchi conobbe certamente il principe di Villagrazia, il capo mafia Stefano Bontate, il boss e gran maestro massone che si era messo in testa l’idea di cambiare la natura di Cosa Nostra, rendendola, come dire, più charmant.
Allevati a Chiesa Cattolica, esoterismo parareligioso, politica ed appalti, Luciano e Duilio Cassina erano gli eredi di quella tradizione neotemplare innestata in Sicilia dal padre, il Conte Arturo, luogotenente dell’Ordine dei cavalieri del Santo Sepolcro. Così, per comprendere l’orgia del potere e i suoi riflessi sulle istituzioni e la società siciliana, il racconto del cronista deve fare un balzo indietro di trenta anni esatti, quando, nel Duomo di Monreale, il 1° novembre del 1984, si dispiega una teoria di dame velate da drappi istoriati con cinque croci gerosolimitane e cavalieri dal lungo mantello e spada al fianco. E’ la cerimonia per l’investitura di 39 nuovi tra cavalieri e dame. Quel giorno le istituzioni correranno in soccorso del potente ordine cavalleresco. Un affresco della Sicilia ricordato così dalla penna dell’inviato di Repubblica, Alberto Stabile: “politici, magistrati, imprenditori e alti funzionari dello Stato, ufficiali d’ Arma e docenti universitari: una folla di potenti è accorsa al richiamo dell’Ordine del Santo Sepolcro per far corona all’iniziazione di 39 nuovi cavalieri e dame. Emozionati, irrigiditi nell’abito scuro coperto dal mantello candido lungo fino ai piedi, i cavalieri si schierano su un lato dell’altare. C’è il generale Umberto Cappuzzo, c’è il prefetto Emanuele De Francesco, già commissario dell’Antimafia, c’è l’ ex questore di Palermo Giovanni Epifanio, c’è l’ ex ministro Attilio Ruffini”.
Tra il pubblico c’è anche l’allora procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno. Il magistrato negherà di far parte dell’ordine, ma il suo nome compare nell’annuario dei cavalieri del 1984. C’è scritto che Pajno è stato accolto dall’Ordine il 26 novembre 1981. A quel consesso esoterico, raccontano gli studiosi, avrebbero aderito anche il gran maestro Licio Gelli, il finanziere Giuseppe Azzaretto (uno dei soci fondatori della Banca Rasini di Milano) e Pino Mandalari, il ragioniere di Riina e Provenzano.
Ma quella mattina del novembre 1984, a Monreale, la mano più contesa per la canonica stretta amicale è quella del luogotenente per la Sicilia del priorato: è il conte Arturo Cassina. Quel giorno, a inginocchiarsi di fronte alla dignità dei Cavalieri, oltre a prefetti e funzionari di alto rango della Polizia, c’era anche Bruno Contrada, allora dirigente della Criminalpol, destinato a diventare il numero 3 dei servizi segreti italiani per poi precipitare nell’onta della più indegna tra le condanne definitive che possano colpire un servitore delle istituzioni: aver favorito la mafia.
Più che re della città, i Cassina erano i padroni delle fogne, appalto che l’impresa con il nome di famiglia gestì senza soluzione di continuità dal 1938 al 1974. Affare miliardario che sembrò andare in fumo quando il 15 settembre del 1974, il Giornale di Sicilia scrisse dello stop al contratto miliardario per l’impresa Cassina. “La nuova ditta è la Lesca”, annunciò il quotidiano. Era sempre Cosa loro, dei Cassina. Sugli appalti al comune di Palermo perse la vita il sindaco Giuseppe Insalaco. Alla fine quel ricco plateu di fogne, divenne oggetto di un contenzioso milionario tra le imprese della famiglia Cassina e il comune di Palermo.
I Cassina, erano potenti e temuti, in ossequio a quel presunto codice di riconoscenza verso chi viene a lavorare ed intraprendere in Sicilia. Intoccabili, ma non troppo. La storia della famiglia si incrocia con la rivoluzione mafiosa di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Toccherà a Luciano Cassina assaggiare il verbo violento delle cosche corleonesi, in procinto di scendere sul terreno di guerra contro i clan storici della Palermo dei circoli bene. Nell’agosto del 1972, una task force dell’Anonima sequestri, guidata da Liggio, Riina e Provenzano, rapisce Luciano Cassina. E’ una tagliata di faccia a Stefano Bontate. Luciano Cassina sarà rilasciato nel febbraio del 1973, dopo il pagamento di un riscatto da un miliardo di lire. Tra i mediatori per il rilascio di Cassina ci sarà anche Don Agostino Coppola, nipote del boss mafioso di Partinico, Frank tre dita.
Le vicende dei Cassina si incroceranno con il default della Sicilcassa, la banca siciliana crollata probabilmente per la facilità con cui concedeva prestiti senza garanzie, metodo contraddetto dalle barriere insormontabili erette a chi si presentava, senza padre o padrino, a chiedere un prestito per salvare la sua impresa. Per informazioni, chiedere alla vedova di Libero Grassi.
Non solo appaltatori, i Cassina si lanciarono, non senza una certa fortuna iniziale, nel mondo dell’editoria. Erano loro a controllare il quotidiano Telestar dall’inizio degli anni Sessanta. Da quella redazione passò anche Franco Cardella, il guru della comunità Saman, successivamente coinvolto nelle indagini per la morte di Mauro Rostagno. Le cronache giudiziarie, in Sicilia, in Calabria e nel Lazio, si sono interessate a più riprese delle gesta dei Cassina. Ma quel braccialetto al polso, applicato anche per l’età avanzata ai due fratelli Cassina, pesa più di una condanna. E’ il segno dell’impotenza di chi tutto ebbe e controllò per oltre mezzo secolo in terra di Sicilia.