Chi ha paura dell'uomo nero'? | L'orrenda gioia per i morti in mare - Live Sicilia

Chi ha paura dell’uomo nero’? | L’orrenda gioia per i morti in mare

Foto d'archivio

Qui se ne parla con persone sensibili che ci dicono quello che pensano sulla disumanità di tutti

Perché abbiamo paura dell’uomo nero? Quale sortilegio ci ha infilato nel vicolo cieco della rabbia, del terrore e dell’indifferenza? Di persone migranti si può discutere con cognizione di causa, sottolineando l’ignavia di un’Europa che proclama inderogabili principi di accoglienza che poi non rispetta, ma non dimenticando che si tratta, appunto, di persone.

Diverso è pubblicare orrori sui social, riempire post di cattiveria gioiosa, di pesci famelici a cui augurare buon appetito e altre porcherie del genere. Differente è spogliarsi di ogni fisionomia d’umanità. Quando ciò accade, cigolano i cancelli di Auschwitz, qualunque sia il suo nuovo travestimento.

“Oggi temiamo di perdere le certezze che ci hanno formato e forgiato – dice Alfredo Lo Cicero, viaggiatore, cooperante, sempre in giro per il mondo -. Peccato. Perché sopratutto noi siciliani siamo il risultato di un crogiolo di culture, passaggi creativi di chi ha intrapreso un viaggio per conoscere e trasmettere. Temiamo il diverso perché abbiamo smesso di navigare nella nostra vita”.

Alfredo è un siciliano buono, uno di quelli, che hanno un mestiere, un impegno e un’accentuata sensibilità, che proveranno a rispondere all’inquietante domanda. Un rovello che inquieta proprio noi isolani, un tempo aperti all’accoglienza, oggi chiusi, come tutti gli altri.

Ettore Zanca, scrittore, richiama i miti negativi, gli incubi: “Poco tempo fa ho letto un interessante articolo sulla realtà confortata dalle cifre e quella percepita dalla gente. L’italia è una di quelle nazioni dove il gap è molto alto. La gente non crede alle cifre e crede alle minacce che gli vengono trasfuse abilmente. Per cui i migranti sono una minaccia concreta, i barconi sono tutti pieni di criminali malintenzionati o al più gente pronta a rubarci il lavoro. Il feticcio è pronto e con questo feticcio la sicurezza può essere elevata. Invece, siamo il paese in cui i problemi sostanziali diventano marginali”.

“La parola chiave è ‘dolore’ – dice Roberto Garofalo, medico e ‘scrittore’ per LiveSicilia.it -. Quando non ha una valenza disumanizzante, non è così devastante da renderci cannibali, può sembrare strano, ma può avere persino un valore pedagogico. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno sofferto il dolore della guerra e le sofferenze della ricostruzione. È così che hanno sviluppato il senso forte della solidarietà e della prossimità. Noi abbiamo perso la memoria storica di tutto questo”.

“Non è cattiveria – dice lo scrittore Gaspare Scimò – quella che rivolgiamo sempre più spesso nei confronti dei migranti, né si può parlare di razzismo. Sì, perché sembra ostilità, odio, ma in realtà è solo un bisogno forse tutto italiano, così come un po’ ungherese, di sentirsi rassicurati nei propri limiti e nella propria inettitudine. La convenienza di semplificare un insieme di persone e di storie, tutte diverse fra loro, in una sola figura: quella del nemico”.

Marisa Cottone, psicologa, si orienta con i ‘ferri del mestiere’: “Come mai siamo diventati così cattivi con i migranti? Una possibile chiave di lettura di questi comportamenti potrebbe essere ricercata nelle dinamiche relative al bisogno di approvazione che ciascuno di noi sente. Ma se la ricerca di attenzione può scorrere su piani benevoli, lì spesso intervengono altri meccanismi per cui emozioni come la paura, la rabbia, il disgusto, l’angoscia, sentite dentro di noi, invece che essere tenute in considerazione in sé, espresse alle persone significative, risolte o trasformate, vengono espulse e proiettate su altri, che più sono diversi e distanti da noi. E così queste persone investite di cariche negative diventano ‘il mostro, l’uomo nero’, vissuti che non riusciamo a tollerare in noi che, nel frattempo, ci salviamo come puri, buoni”.

Sofia Muscato, autrice poliedrica, chiosa: “Bisogna tornare a parlare con la gente e non della gente e, preferibilmente, dal vivo: non tramite l’ausilio di un social. Odiarsi reciprocamente non ci ridarà il senso più profondo della vita: quello lo abbiamo perduto da quando nessuno si occupa di risvegliare le coscienze sopite. Oggi si parla solo di immigrati e porti chiusi e non ci rendiamo conto che il vero straniero ce lo abbiamo dentro quando non capiamo più il motivo per cui siamo chiamati a vivere”.

Il vero straniero l’abbiamo dentro, dice Sofia. E non è l’uomo nero che viene dal mare e che ci fa paura.


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