Padri e figli dal cognome pesante | Le storie di Angelo e Massimo - Live Sicilia

Padri e figli dal cognome pesante | Le storie di Angelo e Massimo

Storie differenti, percorsi diversi, vite irriducibili, quelli di Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, e Massimo Ciancimino, figlio di Vito. Uomini in cammino che hanno il diritto di parlare e di essere ascoltati, ma anche "pedine" in un gioco di simboli più grandi di loro.

Il confronto
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Angelo Provenzano, figlio di Binnu, che intrattiene i turisti e narra di suo padre, non va bene. Massimo Ciancimino, figlio di Vito, abbracciato da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, su pubblica piazza e in una pubblica foto, va, invece, benissimo.

Storie parallele nello strabismo di chi scrive sulla lavagna, col gessetto della retorica, i nomi dei buoni e dei cattivi. Ma poi – retorica, per retorica – bisogna vedere cosa procuri maggiore sgomento: se le cronache che Angelo richiama a vantaggio dei visitatori curiosi;  se la contaminazione simbolica che portò a essere una cosa sola, un’immagine indifferenziata – in occasione di un anniversario di via D’Amelio – Massimo e Salvatore. Come se fosse sufficiente una stretta di mano privata per ricucire i lembi dello strappo di un dolore universale.

E siamo proprio ai simboli che compongono il cuore dell’antimafia: meglio cento giorni col cicerone Provenzano, o uno con Ciancimino avvinghiato alla legittimazione gentilmente offerta? Meglio i riflessi dei tempi feroci dei corleonesi, oppure quell’ombra antica, confusa, in un groviglio inestricabile, con la santità di un eroe repubblicano, per interposti congiunti?

Angelo e Massimo – nel limite oggettivo della legge e in quello soggettivo della decenza – hanno il diritto di seguire i rispettivi cammini, diversamente sofferti (su Ciancimino jr ogni giudizio definitivo dovrà attendere l’esito dei tanti percorsi innescati). Ma qui si pone un interrogativo di fondo sul contesto, più che sui personaggi; su alcuni feudi d’antimafia – per fortuna, non tutta l’antimafia è feudo – sulla coerenza di chi distribuisce ragioni e torti, nel borsino delle convenienze.  Lì dove la vicinanza a un ‘credo’ o il non attenersi alle prescrizioni di un sinedrio, di un comitato di saggi in servizio permanente effettivo, costituiscono l’unico discrimine tra il bene e il male. Ecco perché queste storie parallele hanno un senso comune.

Qual è la colpa che non si perdona ad Angelo Provenzano? Avere scelto di rompere il silenzio. Un gesto di frattura dell’omertà, con un ritorno economico e con un posizionamento su un confine sensibilissimo che giustamente scuote le coscienze. Il resto è, appunto, retorica da registratore di cassa del facile consenso. Il senatore Beppe Lumia – sponsor del governo regionale più antimafioso che c’è – avrebbe detto, scagliando il suo anatema: “Questa notizia ha dell’incredibile. E’ solo apparentemente innocua. Oltre a raccontarsi ai turisti il figlio di Provenzano potrebbe trovare un po’ di tempo per dire ai magistrati dove si trovano le ricchezze accumulate dal padre e chi le amministra”. L’uso del condizionale riecheggia una doverosa misura di cautela al cospetto di un’accusa gravissima e precisa.

Tolta la buccia, arrivando alla polpa, appare l’elenco dei peccati che non si rimettono ad Angelo: la spavalderia vergognosa della sua innocenza, quel voler camminare a testa alta, nonostante il cognome, la necessità di lavorare, il torto di non avere mai sputato in faccia a un padre vinto, malato e in catene, con cori di giubilo dagli spalti, la voglia comunque di narrarsi che avrebbe meritato una riflessione più profonda.

La stessa militanza ideologica che crocifigge Provenzano jr salutò con gioia l’avvento di Massimo Ciancimino, accreditato di ogni credibilità in via preventiva. Il fratello di Paolo fornì la chiave di lettura di un tale riconoscimento, all’indomani del contestatissimo abbraccio: “Lo rifarei. E’ il principale testimone del processo sulla trattativa. Ho manifestato solidarietà a Ciancimino per le scelte che ha fatto, che paga e pagherà, perché non vuole che il suo cognome pesi sul figlio così come ha pesato su di lui. Il giudizio penale lo dà la giustizia. So che è stato condannato in via definitiva per riciclaggio. Ma a un uomo che mi chiede di venire in via D’Amelio con suo figlio bambino non posso dire di no. E ho sentito di salutarlo così come ho fatto. Non sono pentito”.

Così si giunge alla formula magica: la ‘Trattativa’ – anche in questo caso la riflessione vale per il contesto, più che per il fatto in sé e per i suoi scenari – il collante che tiene insieme una grande suggestione e un difficile processo, già criticato in sede accademica da un giurista di sinistra, come Giovanni Fiandaca. Ciancimino è stato il traino mediatico, il limone da spremere finché c’era succo, fino all’abbandono nel cestino dei reietti, soprattutto per l’emergere di presunti impicci, come si annota in cronaca. Il suo nome, sulla lavagna, venne subito scritto nell’elenco dei buoni, salvo ripensamenti. Perché lì serviva.

Irriducibili sono queste vite, le storie parallele di Angelo e Massimo e dei loro genitori. Solo nel dolore che le attraversa si specchiano, dunque i figli meritano il beneficio del dubbio. Mutevole è il borsino delle convenienze e delle suggestioni che traccia il confine tra il bene e il male. Colpa e innocenza in sé non fanno punteggio.


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