PALERMO – Reggono le accuse di favoreggiamento aggravato e procurata inosservanza di pena, ma non quella di associazione mafiosa per uno dei fedelissimi di Matteo Messina Denaro. Il giudice per l’udienza preliminare Rosario Di Gioia ha condannato l’operaio comunale Andrea Bonafede a 6 anni e 8 mesi. Era difeso dall’avvocato Tommaso De Lisi.
Bonafede, una famiglia al servizio del boss
Si tratta della prima sentenza che riguarda i componenti della famiglia Bonafede al servizio del latitante deceduto dopo l’arresto. La sentenza è stata emessa con il rito abbreviato, dunque la pena è stata scontata di un terzo come previsto da rito alternativo. Da qui la condanna a sei anni e otto mesi – contro una richiesta di 13 anni avanzata dall’accusa – il massimo previsto per questo tipo di reati. Prima della camera di consiglio il giudice ha respinto la richiesta della Procura di acquisire nuove prove e cioè una serie di messaggi WhatsApp che confermavano i rapporti di Andrea Bonafede con il cugino omonimo e con Lorena Lanceri, vivandiera del capomafia.
L’accusa di associazione mafiosa
Bonafede, secondo il giudice, ha aiutato il capomafia ben consapevole della sua identità, ma non fa parte di Cosa Nostra. “Adenocarc. Il 3 novembre lo so”, c’era scritto nel pizzino trovato in una gamba della sedia a casa della sorella del padrino, Rosalia. Erano gli appunti del diario clinico di Messina Denaro. Da qui sono partite le indagini che hanno portato all’arresto del latitante poi deceduto. Ed è proprio studiando i passaggi sanitari del padrino che il procuratore aggiunto Paolo Guido e i sostituti Gianluca De Leo e Piero Padova avevano deciso di contestare non più l’iniziale reato di favoreggiamento aggravato, ma il più grave di associazione mafiosa al manutentore del comune di Campobello di Mazara.
La fiducia del boss Messina Denaro
In lui il boss di Castelvetrano riponeva massima fiducia tanto da chiedergli aiuto in un momento di grandissima difficoltà. Il 3 novembre 2020 Messina Denaro ha saputo di essere malato di tumore. All’indomani Bonafede ha attivato una sim card e l’ha inserita in un vecchio cellulare in passato usato dalla suocera e dalla madre. Da allora il suo percorso sanitario ha avuto un’accelerazione.
I cellulari e la caccia al boss
I carabinieri del Ros, coordinati dal procuratore Maurizio de Lucia, hanno mappato il telefonino che il 5 novembre ha agganciato la cella in cui ricade l’ospedale di Mazara del Vallo. Stessa cosa è avvenuta con la scheda del telefono in uso a Bonafede. Il 6 novembre i due cellulari sono risultati ancora una volta posizionati uno accanto all’altro. È il giorno in cui Andrea Bonafede, cugino omonimo dell’operaio, colui che ha prestato l’identità al latitante, ha fatto accesso in ospedale per una visita. In realtà si trattava di Messina Denaro.
“Un favore a mia insaputa”
Dal 9 novembre i contatti si interrompevano. La nuova linea è rimasta per giorni muta. Il 13 novembre Messina Denaro è stato operato la prima volta all’ospedale Abele Ajello, due mesi prima del secondo intervento alla clinica La Maddalena di Palermo. Il 14 novembre è stata attivata una nuova utenza, sempre intestata a Bonafede l’operaio. Il 18 novembre la nuova sim e quella intestata a Bonafede hanno agganciato una cella di Campobello di Mazara. Messina Denaro era tornato a casa. All’inizio all’imputato era stato contestato il fatto di avere prelevato le ricette mediche per il latitante dal medico Alfonso Tumbarello. “Un favore a mia insaputa”, aveva detto nel corso dell’interrogatorio di garanzia.
Il padrino in giro per Campobello
Bonafede ha sempre negato di conoscere il capomafia e di averlo incontrato, contestando anche un video che lo immortalava mentre si scambiava un saluto a distanza con Messina Denaro. Alle 14:36 del 13 gennaio scorso. Tre giorni prima di essere arrestato il padrino se ne andava in giro tranquillamente a Campobello di Mazara. Nel filmato si vede Messina Denaro camminare per strada a piedi e salire sull’Alfa Romeo Giulietta. Ad un certo punto arrivava Bonafede al volante di una macchina del Comune di Campobello di Mazara. Si fermò a parlare con il capomafia, poi riprese la marcia.
La tesi della difesa
Per smentire questa ricostruzione il legale della difesa, l’avvocato Tommaso De Lisi, aveva depositato il report dei messaggio scaricati dal cellulare di Bonafede. C’era un sms in cui veniva incaricato di recarsi in via Galileo Galilei, ad angolo con via Mare, e cioè a pochi passi dal luogo dell’incontro con Messina Denaro. “Doveva sostituire una lampada dell’illuminazione pubblica”, ha sostenuto il legale. Ora la sentenza. Bonafede ha dato consapevolmente una mano a Matteo Messina Denaro. Lo ha aiutato a curarsi e a sfuggire alle condanne all’ergastolo che gli erano state inflitte, ma non è un associato mafioso. Per questa ultima ipotesi è arrivata l’assoluzione co la vecchia insufficienza di prove.