PALERMO – Tutti rinviati a giudizio, a cominciare da Paolo Genco, presidente dell’Anfe. Ottanta lavoratori si sono costituiti parte civile. Dopo il fallimento del colosso della formazione professionale, le cui procedure sono iniziate in piena estate, centinaia di persone hanno perso il lavoro e si ritengono vittime del sistema “fraudolento” su cui si sarebbe retta l’Anfe.
Rinviati a giudizio anche Paola Tiziana Monachella, responsabile dell’Anfe di Castelvetrano, Aloisia Miceli (direttore amministrativo dell’ente) e Rosario Di Francesco (direttore della Logistica della delegazione regionale Sicilia Anfe). Il processo inizierà il prossimo 6 dicembre davanti al Tribunale di Trapani. Ritroveranno il quinto imputato l’imprenditore Baldassare Di Giovanni. Genco, prima di essere scarcerato, è rimasto ai domiciliari da gennaio a marzo scorsi.
Secondo l’indagine del Nucleo di polizia tributaria della finanza trapanese, Genco avrebbe sfruttato una sfilza di fatture false per dimostrare di avere affrontato spese mai sostenute. E così fra il 2010 e il 2013 l’Anfe avrebbe ottenuto finanziamenti non dovuti dall’Unione europea. Ad emettere i documenti contabili sarebbe stato Di Giovanni, titolare della “General Informatic Center e della “Cooreplast”. Ottenuti i rimborsi Genco avrebbe speso i soldi per fini privati e cioè per comprare gli immobili intestati in parte a una società immobiliare, La Fortezza, amministrata da Di Giovani, e in parte a una dipendente del’Anfe, coinvolta nella frode.
Genco ci avrebbe guadagnato due volte perché gli stessi immobili venivano pure dati in affitto all’Anfe per ospitare i corsi di Formazione. Per dare una parvenza di legalità, l’Anfe avrebbe simulato di essersi rivolta alle società di Di Giovanni dopo avere fatto un’indagine di mercato per la fornitura di materiale informatico. Secondo la Procura, anche quei preventivi erano frutto di un accordo illecito. Perché tra i preventivi raccolti c’erano quelli esosi presentati da una società all’oscuro di tutto. Era inevitabile, quindi, che fossero le società di Di Giovanni ad aggiudicarsi la commessa.
L’inchiesta ha provocato il crac dell’Ente di formazione professionale. Appresa la notizia dell’indagine, infatti, la Regione decise di ritirare l’accreditamento all’ente. Niente accreditamento e niente finanziamenti. Il collasso è stato inevitabile. A farne le spese i lavoratori raggiunti da una lettera di licenziamento collettivo. In ottanta si sono costituiti parte civile con l’assistenza degli avvocati Marco Lo Giudice, Ernesto leone, Antonino Gucciardo e Donatella Buscaino.
La conferma alle ipotesi accusatorie arrivò all’indomani delle perquisizioni negli uffici dell’Anfe. Era lo stesso Di Giovanni in un dialogo con una sua collaboratrice ad ammettere senza sapere di essere intercettato la difficoltà di dimostrare la veridicità delle forniture per circa tre milioni di euro.. “Anche perché molte volte si fatturava tutt’altro rispetto a quello che poi veniva dato anche in locazione… soprattutto in locazione”, spiegava la donna. Un’altra volta, a bordo della sua Mercedes, Di Giovanni sbottava: “… perché io non so come loro riescono a capire… quando mi dicono fammi dieci fatture… di cose… cancelleria… ma tu non capisci che mi stai chiedendo una cosa…”. Sarebbe la prova che le forniture di computer, stampanti e di tutto ciò che serviva per i corsi sarebbero state gonfiate. Era il metodo attraverso cui sarebbe stata creata una cassaforte con denaro liquido da spendere negli investimenti immobiliari.