PALERMO – Dopo Marino, Crocetta. La suggestione ha ormai invaso i palazzi del potere siciliano e romano. Dopo il sindaco della capitale dimessosi proprio ieri, al termine di un periodo scandito da polemiche quasi quotidiane, anche il governatore dell’Isola potrebbe essere, presto, invitato a farsi da parte. A lasciare Palazzo d’Orleans, per lanciare la Sicilia verso le elezioni anticipate, la prossima primavera, in un mega election day che coinvolgerà anche alcune grandi città italiane, inclusa con ogni probabilità la Capitale stessa. O almeno è questo l’auspicio che torna a circolare in ambienti di maggioranza, quelli più in sintonia col governo nazionale. “Governino o vadano a casa”, aveva detto il premier a proposito di Marino e Crocetta. Il primo ha tolto il disturbo ieri. Per il secondo, tra il dire e il fare c’è di mezzo l’Ars.
Matteo Renzi ci sta pensando seriamente. L’indiscrezione filtra dagli ambienti più vicini al premier. E del resto, c’è un precedente che in qualche modo lega le storie di Ignazio Marino e Rosario Crocetta. Nel luglio scorso, quindi meno di tre mesi fa, il presidente del Consiglio aveva lanciato una chiaro avvertimento al primo cittadino e al governatore: “Si occupino di cose concrete, – disse Renzi – dei problemi della gente, della sanità. Si smetta di guardare a strani giochi politici: se sono in grado di governare vadano avanti altrimenti vadano a casa. Basta con la telenovela continua: la gente non si chiede se un politico resta in carica ma se risponde alle sue domande”.
Un “invito” raccolto non certo con soddisfazione da Crocetta che poche ore dopo, in diretta su La 7, replicava: “Non è che se uno ti sta sulle p… puoi dirgli che se ne deve andare a casa, perché non lo decidi tu ma gli elettori. E’ come se io dicessi al sindaco di una città siciliana che se ne deva andare solo perché mi è antipatico”. Ma ovviamente c’è di più di un vago sentimento di antipatia. Renzi è molto preoccupato. E mai come in queste settimane Palazzo Chigi o rappresentanti dell’esecutivo nazionale sono entrati nelle vicende siciliane. A cominciare dalle impugnative. Roma sta cassando, in pratica, ogni legge pensata dal governo e approvata dall’Ars: è successo per la norma sugli appalti, per le Province e a giorni, ha gà fatto sapere Palazzo Chigi alla Regione, toccherà anche alla riforma del sistema idrico. “Se vogliamo costruire un rapporto sinergico con il governo nazionale – ha commentato il sottosegretario Davide Faraone in occasione dell’impugnativa sui Liberi consorzi – dobbiamo puntare sulla credibilità della Sicilia. Fatti come questo la minano in maniera irrimediabile. E non è un caso isolato”
Ma non solo. Faraone, ad esempio, è intervenuto recentemente, dopo l’ennesima frana che ha investito stavolta l’autostrada Catania-Messina, con parole molto dure: “Crocetta rimuova i vertici della Protezione civile e del Consorzio autostrade siciliane”. Una invasione di campo che ormai sfiora il commissariamento di fatto. E anche altri segnali, più di dettaglio, sembrano certificare il definitivo distacco tra Roma e la Sicilia. Il governo nazionale, sia per quanto riguarda l’impugnativa della legge sugli appalti, sia su quella dei Liberi consorzi, ha deciso di andare avanti nonostante lo stesso Crocetta avesse inviato una nota con la quale assicurava la pronta modifica della legge, nel rispetto dei rilievi di Palazzo Chigi. Rassicurazioni ignorate dal Consiglio dei ministri che è andato avanti col ricorso di fronte alla Corte costituzionale.
Un commissariamento di fatto, dicevamo. E del resto anche in altri settori la Sicilia è stata più volte nel mirino del governo Renzi. È il caso, ad esempio, delle pesantissime critiche del ministro della Salute Beatrice Lorenzin nei confronti di Lucia Borsellino e del governo Crocetta, nei giorni successivi alla morte della piccola Nicole. E dopo il “caso Tutino” e l’addio della Borsellino, anche dal Pd nazionale arrivò la richiesta di verificare la possibilità di chiudere l’esperienza Crocetta. Ma anche in quel caso, quando il caso della famigerata intercettazione si chiuse, si decise di andare avanti. Mentre, però, insieme alle “bacchettate” romane alla Sicilia per i ritardi sui rifiuti, per i depuratori non realizzati e per altro ancora, fioccavano le liti tra lo stesso governatore e chi, oggi, funge da legame tra l’Isola e Palazzo Chigi, cioè Davide Faraone appunto. Sottosegretario e governatore hanno litigato più o meno su tutto. Il presidente puntò il dito contro Faraone anche in una seduta della commissione antimafia: “Il Pd intende intervenire nei confronti di un sottosegretario che mi ha attaccato perché faccio troppe denunce?” disse Crocetta.
Ma adesso c’è di più. Intanto si sono sbriciolati alcuni rapporti che fungevano da amalgama per questa esperienza di governo. L’ex ministro Totò Cardinale si è sempre più avvicinato a Faraone e gradualmente allontanato da Crocetta, fino alla rottura e alle ultime dichiarazioni al vetriolo del governatore contro l’ex ministro. Crocetta ha perso la vicinanza anche di forze decisive come quelle di Confindustria, mentre anche all’interno del partito siciliano permane una diffidenza frutto di mesi di polemiche. Persino il “suo” Megafono ieri ha preso le distanze dal presidente e della sua “rivoluzione”.
Ma soprattutto, a pesare sono i conti. Palazzo Chigi ha seri dubbi sulla possibilità che a queste condizioni la Sicilia possa riuscire a chiudere un bilancio nel quale bisognerà trovare le somme che andranno a sostituire quelle del Fondo di sviluppo e coesione, usate impropriamente per la spesa corrente. Una cifra-monstre di quasi 1,7 miliardi di euro che il governo regionale dovrebbe andare a reperire altrove, in un periodo di crisi dal quale l’Isola non sembra uscire. “La Sicilia non ha lo stesso passo del resto d’Italia”, commentavano nelle settimane scorse i renziani. E in tanti adesso iniziano a pensare che a queste condizioni, la permanenza a sostegno di Crocetta possa essere solo nociva per il Pd, visto che si andrebbe incontro a mesi di logoramento politico e di scelte necessariamente impopolari che si ripercuoterebbero sul consenso.
A tenere tutti uniti fin qui è stata anche la paura “grillina”. La possibile vittoria del Movimento cinque stelle in Sicilia sarebbe un duro colpo per Renzi. “Ma non si può dire che non si deve andare al voto solo per paura di perdere le elezioni”, aveva detto recentemente Faraone.
Intanto, però, le segreterie dei partiti siciliani sembrano avere altri programmi per la testa, che non contemplano la prematura fine della legislatura. Da settimane, invece, si dibatte e non sottotraccia di un possibile rimpasto verso un governo politico, che alimenta gli appetiti di più di un deputato. L’istinto di autoconservazione degli inquilini di Sala d’Ercole è stato e tuttora è la migliore garanzia di sopravvivenza per Crocetta, malgrado l’insofferenza romana. Il problema, oggi come l’estate scorsa, resta quello: trovare la strada. Convincere i deputati regionali a sfiduciare Crocetta (soluzione certamente non agevole) o spiegare al governatore che è ora di farsi da parte. Come è successo a Ignazio Marino.