“Era un clima terribile, a un certo punto venne fuori questo sussulto di responsabilità generale e per la prima volta i postcomunisti decisero di entrare al governo per dare una mano e io fui scelto come presidente”. Da quel clima terribile sono passati ormai 17 anni e mezzo. Erano gli anni in cui Cosa nostra metteva in atto la sua strategia stragista e alla guida della Regione veniva scelto, anche grazie all’apporto della sinistra, un esponente della Democrazia Cristiana che in precedenza era stato presidente della commissione regionale Antimafia: Giuseppe Campione. Si formava così un governo di centrosinistra, insediatosi ufficialmente il 16 luglio del ’92, otto settimane dopo la strage di Capaci e appena tre giorni prima della strage di via d’Amelio. Ma quelli di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono stati gli unici omicidi eccellenti perpetrati dalla mafia durante la lunga carriera politica di Campione. Un altro attentato che è rimasto impresso nella memoria dell’ex presidente della Regione è quello ai danni del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Nel 1982, l’anno del delitto Dalla Chiesa, lei fu chiamato a ridare immagine alla DC siciliana. Che aria tirava a quel tempo nel suo partito?
“Sì, diventai segretario regionale della DC in quella fase. Avevamo deciso di avviare una stagione di rinnovamento, una stagione antimafia. Alcuni di noi eravamo esterrefatti, come se noi avessimo ucciso Dalla Chiesa, nel senso che ci rendevamo conto che questa situazione andava in qualche modo chiarita. Ciascuno doveva assumersi le proprie responsabilità”
Andiamo un attimo al presente. Alla luce dell’assoluzione di Calogero Mannino, crede che la storia della Dc in Sicilia vada riletta come ha detto Rudy Maira, oppure no?
“In tutte le storie ci sono delle luci e delle ombre. Per molto tempo la DC fu abbastanza inconsapevole del dramma della situazione. Ci furono dei momenti in cui il discorso funzionò e altri in cui ci furono discorsi ‘arretrati’. Alti e bassi. Il congresso di Agrigento del 1983 fu un momento di svolta reale, ma un paio d’anni dopo fu insabbiato”.
Che cosa intende quando dice che la DC era inconsapevole?
“Alcune volte dava prove di grande responsabilità, altre volte di inconsapevolezza”.
Era un’inconsapevolezza a livello dei vertici romani?
“No, era soprattutto a livello delle dirigenze locali. Il gioco delle correnti, per esempio, tendeva a prevalere sui momenti di grande responsabilità”.
Una figura di spicco all’interno della DC siciliana era Vito Ciancimino.
“Ciancimino era rimasto fuori dal congresso di Agrigento e a poco a poco, dopo le dichiarazioni di Buscetta e le indagini che ne seguirono, finì con l’essere estromesso del tutto dal partito”.
Oltre a Ciancimino, in quel periodo ci furono altri suoi colleghi, meno noti, espulsi perché in odor di mafia?
“No, non ci furono altri espulsi. Noi facevamo un’azione per cercare di rendere più trasparente il comportamento della Regione o delle autonomie locali”.
A proposito di luci e ombre. La DC era una sola? Oppure si può dire che c’erano una DC pulita, rappresentata per esempio da Pier Santi Mattarella, e un’altra DC collusa, capeggiata da Ciancimino e Lima?
“C’erano diversi modi di concepire la politica. C’era chi riteneva che la politica dovesse essere innanzitutto un servizio, che creasse prospettive di liberazione. E c’era chi invece riteneva che la DC dovesse essere essenzialmente un fatto di potere e quindi gestita secondo le consuetudini locali. È chiaro che la distinzione non si può fare con l’accetta, cioè il buono e il cattivo. Però, di fatto, era come se ci fossero situazioni tra di loro contraddittorie”.
Parliamo degli esempi positivi come appunto Mattarella.
“Sergio, dopo la morte di Pier Santi (nella foto), ereditò questa linea politica delle carte pulite, del rinnovamento della Sicilia, già portata avanti dal fratello”.
Qual è il suo giudizio complessivo sulla storia della DC nell’Isola?
“È una storia piena appunto di luci e di ombre. Con alcuni eventi dolorosi come la morte di Mattarella, che fu un fatto di gravità inusitata. C’erano dei momenti di grande splendore e dei momenti di caduta assoluta”.
Secondo la sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 2 maggio 2003 Andreotti sapeva del rischio che correva Mattarella e avrebbe anche cercato d’impedire l’omicidio, senza però seguire logiche istituzionali.
“Questo non lo so. Questo l’ho letto sui giornali. Non sono in grado di entrare nel merito di queste cose”.
Voi ai tempi percepivate che Mattarella potesse essere in pericolo?
“No, nessuno. Volevano ammazzare pure me, ma i progetti d’attentato nei miei confronti sono stati sventati prima. Ogni tanto la polizia ci avvertiva di queste cose, ma altri particolari sono venuti fuori solo in questi giorni, come le dichiarazioni di Spatuzza secondo cui io dovevo essere ucciso dopo Caselli”.