PALERMO- Chi ha ucciso Daniele Discrede? Chi l’ha assassinato un commerciante, alla fine della sua giornata di lavoro, probabilmente per una rapina andata a male? Chi ha seminato la devastazione nella sua famiglia? Chi ha sparato a un padre davanti a sua figlia, condannando una bambina di otto anni a crescere con un peso che non si dissolverà mai? Che cos’è Palermo, capitale insanguinata, in cui si scippa, si rapina, si ammazza, in un crescendo di violenza, senza che appaia all’orizzonte una reazione, una contromossa, un antidoto?
Sono le domande di tutti. Sono le domande di Vito Discrede, fratello di Daniele, ucciso la sera del 24 maggio in via Roccazzo, dopo una colluttazione con un gruppo di balordi armati e incappucciati. Le semplici e amare considerazioni di un cittadino perbene, non soltanto la rabbia di chi è stato ferito in profondità da una orribile mutilazione privata. Vito parla per la prima volta, per chiedere giustizia, col garbo e la compostezza che hanno distinto la sua famiglia in un frangente talmente tragico. Sorseggia un caffè, in un bar dalle parti di Mondello. Le parole escono a fatica, per il peso che comporta tirarle fuori. Sono nette, intellegibili e indiscutibili.
La premessa: “Apprezziamo lo sforzo delle forze dell’ordine e degli inquirenti. Ma è passato un mese senza sostanziali novità investigative. Non ci sono sviluppi. Non vorremmo che l’atto atroce di cui è rimasto vittima Daniele fosse considerato quasi secondario, rispetto ad altre esigenze, non essendo ascrivibile alla mafia. Non vorremmo trovarci su un binario morto, senza speranza di via d’uscita. Noi chiediamo giustizia, con forza. Palermo era la città in cui regnava la mafia, l’anti-stato per eccellenza. Grazie al sacrificio di tanti quella presenza tremenda è stata ridotta. Ora aspettiamo un segnale dallo Stato. Parlo da cittadino – osserva Vito -, dal lavoratore, da padre e da marito. Un uomo è stato massacrato mentre rincasava. Ci vogliono risposte, altrimenti sarà naturale che prevalga il sentimento di insicurezza e di inadeguatezza, qualcosa che farà irrimediabilmente del male a Palermo”.
Vito Discrede ha coraggio e lucidità. Separa il lutto personale dal senso civico del suo appello. “Noi non vogliamo dimenticare, ma ricordare Daniele. C’è una ferita aperta che non si chiuderà mai, ma che potrà ricevere un po’ di sollievo grazie all’accertamento della verità. Sapere come sono andate veramente le cose, conoscere i colpevoli, non è solo un diritto sacrosanto della mia famiglia, è una grande questione che coinvolge la legalità e che chiama in causa la dignità di un’intera città”.
Parenti e amici sono impegnati nell’organizzazione di una fiaccolata, fissata il prossimo 25 giugno. Alle 20.45 un corteo partirà dalla piazza di Passo di Rigano e si concluderà in via Roccazzo 92, nel luogo dell’omicidio. Vito e coloro che erano vicini a Daniele hanno messo a punto una nota che condensa e rilancia l’appello per la giustizia, con la supervisione dell’avvocato Antonino Gattuso che accompagna il cammino difficile dei Discrede. Parole, appunto, chiarissime. “Sin dai momenti successivi al tragico evento è stato apprezzato il lavoro degli inquirenti e dei magistrati preposti al caso, caratterizzato, peraltro, anche da una grande umanità nei confronti dei familiari della vittima, riscontrato dai congiunti di Daniele. Ma passato quasi un mese dalla scomparsa di Daniele, nessuna traccia o ipotesi investigativa è stata formulata per giungere alla definizione della vicende ed ad assicurare gli assassini alla giustizia. Di conseguenza la famiglia Discrede, pur comprendendo le notevoli difficoltà a cui sono sottoposte le forze dell’ordine nell’espletamento del loro compito, avverte una sensazione di disagio, quasi di abbandono, non spiegandosi dall’esterno la mancanza di informazioni da parte degli inquirenti e la mancanza assoluta di segnali da parte delle forze di polizia sul territorio”.
E’ proprio una dichiarazione di abbandono in piena regola: “Dalla sera del fatto criminale, nella borgata di Passo di Rigano e nei dintorni limitrofi, non è stato notato un aumento della presenza di tutori dell’ordine, sotto forma di posti di blocco o di presenza visibile nelle strade e per le vie. Ci si sarebbe aspettato anche da parte degli inquirenti un’indagine a tappeto su amici e parenti di Daniele, ognuno per la sua parte capace di fornire, presumibilmente, elementi utili ad indirizzare le indagini nella giusta maniera. Ci si chiede come mai in un’epoca di copertura satellitare a 360° dell’intero pianeta, non si riesca a trovare traccia dei movimenti di questa vettura, già rubata qualche tempo prima, e quindi in movimento dal luogo del furto al luogo dove è stata nascosta; dal nascondiglio al luogo della rapina; dal luogo della rapina a dove è stata ritrovata incendiata”.
La conclusione è impregnata di legittima durezza: “Si ha la sensazione che questo di Daniele Discrede, fortunatamente, non potendosi classificare ad oggi come delitto di mafia o di racket, insomma senza un’etichetta classica, sia stato declassato a delitto di serie B, con una conseguente attenzione dedicata non degna della grande ribalta. Questo aspetto inquieta ogni cittadino, oltre che i congiunti e gli amici della vittima, che vede annacquato un elemento basilare della società civile, che è la protezione e la sicurezza, nella paura che un qualsivoglia anti-stato possa occupare tale ruolo di vigilanza. La famiglia Discrede, pertanto, seppur con grande discrezione, nello stile che l’ha sempre caratterizzata nel lavoro e nei rapporti con gli altri, chiede a gran voce giustizia, rammentando a tutti che non è ammissibile perdere la vita mentre si sta lavorando e che in tal senso per le vittime non ci sono categorie di appartenenza: sono tutte uguali com’è uguale il dolore e lo strazio dei familiari colpiti da tali tragedie. Nella certezza e nella fiducia che chi di dovere compia quel doveroso e umano slancio nell’incentivare le indagini, per riconoscere verità è giustizia ad un ragazzo di 42 anni, ucciso sul posto di lavoro davanti alla propria figlia”.
Chi ha ucciso Daniele Discrede? Non saperlo sarebbe una resa incondizionata. Conoscere la verità significherebbe continuare a sperare. Continuare a vivere, nonostante tutto.