Possiamo immaginarlo quest’uomo mentre rientra in una casa che non sente più sua e si accuccia a letto, senza sonno, perché dormire è la grazia che deriva da un animo in pace. Possiamo immaginarlo questo padre mentre pensa a suo figlio strangolato e gettato in un canalone come un vestito strappato, con gli occhi ancora vivi, in tanta morte. Forse avrà tenuto con sé i giocattoli che furono di Loris, un amuleto per alleviare il lutto, una lampada di Aladino da strofinare pur di sentirsi meno solo, meno abbandonato, senza sonno, nella sua notte.
Possiamo immaginarlo Davide Stival, seduto a un tavolo, sotto una luce fioca, intento a consumare il poco cibo necessario alla sua magrezza. E la televisione accesa, un fuoco gelido che non riscalda. C’è il notiziario che narra di una terribile storia di atrocità e dolore. Ma stavolta il dolore ha lo stesso nome dell’uomo che lo sta guardando. E ancora possiamo pensarlo Davide Stival che non ce la fa più, perché ogni cosa ha il riflesso azzurro del bambino ammazzato e il riverbero rosso sangue del mostro che – secondo una sentenza di primo grado – gliel’ha portato via. Un mostro, sì. Veronica Panarello, la donna che amava, la madre di suo figlio.
Nell’album scolorito di una biografia social di selfie, cuoricini e faccine, resiste una labile traccia dell’amore di Davide e Veronica. Lei, con la leggerezza di una ragazzina, un filo di trucco e quello sguardo inquieto a cui adesso tutti danno il nome dell’abominio. Lui, un ragazzo orgoglioso della bellezza di sua moglie. Tutti e due un po’ piccoli, con l’espressione spaventata e fiera della fanciullezza convocata per la prima volta a tavola dai grandi.
E poi Loris, con la faccia con cui verrà ricordato in eterno. Loris che non crescerà mai, che non si innamorerà, che non avrà né canzoni, né diari, condannato alla sua infanzia perenne, alla pena eterna del non esserci.
E com’è duro – senza colpevolezza né innocenza – sfogliare gli scatti e le didascalie del dopo, ascoltando soltanto le pulsazioni dello strazio. Davide con Veronica, al canalone, dove c’era il corpo della ‘creaturina’ – secondo la dolcificata e nauseabonda definizione di Barbara D’Urso -, lui che si sforza di mantenersi in piedi. Lei vestita di nero, discinta, con i capelli sparpagliati sulle spalle e il viso pietrificato nella maschera dell’ineluttabilità.
Ci sono altre foto, purtroppo. Veronica incappucciata, nel giorno dell’arresto. Intravista tra le sbarre di un carcere mentre la sua voce non creduta ripete: “Non sono stata io”. Incerta e intrisa di angoscia – sincera o rappresentata – con gli agenti, impegnata nell’incongrua scommessa di costruire un’altra versione credibile. Con gli occhi gonfi di lacrime e i capelli raccolti a crocchia, nella macchina che la dovrà riportare in carcere perché un giudice ha appena sillabato una condanna a trent’anni di carcere.
Davide Stival ha ascoltato il pronunciamento di quel giudice. Ha respirato a fondo. Ha detto: “Ora è tempo di voltare pagina. Da oggi si ricomincia. Lo devo al piccolino che non c’è più e a quello che mi aspetta a casa”. Perché c’è sempre una fragilità da difendere, qualcuno che crescerà con sogni, inciampi e canzoni: un padre è sempre un padre, anche se orfano. E di là, tra una finestra e un lettino, c’è un’assenza che uccide. Ma c’è pure un bimbo sperduto che vuole il bacio della buonanotte.