CATANIA – Esistono esperienze pronte a cambiare la tua percezione, esperienze che ti bussano alla porta senza averle mai cercate. Come quella di Zaira Bordonaro, 39enne siracusana, interprete linguistica. Amante da sempre dei viaggi, nata in Sicilia e trasferitasi per 15 anni in Australia per poi ritornare nella sua Isola. In quella terra dalla quale fa fatica a distaccarsi proprio per quell’odi et amo tipico di chi è nato tra il profumo del mare e la genuinità delle piccole cose. Un caffè all’ultimo momento a casa di un’amica senza preavviso, una pizza il sabato sera senza dover controllare in agenda gli impegni incastrati scientificamente come caselle di una battaglia navale. Nelle sue vene scorre la passione per l’inglese. Quella lingua divenuta oggetto della sua professione. E ogni giorno per Zaira, da tradurre, non vi sono i discorsi di stranieri giunti nella provincia etnea per lasciarsi ammaliare dalle sue meraviglie, ma per sopravvivenza.
Il mondo dell’immigrazione ti affascinava prima di scoprirlo personalmente?
“Un pò, anche se dall’esterno non avrei mai potuto immaginare tutti i meccanismi e le sfumature di cui si compone. Ho cominciato come interprete per le forze dell’Ordine al tribunale di Catania durante le udienze che coinvolgono gli extracomunitari, adesso affianco la polizia investigativa che indaga sul traffico illecito dei clandestini durante gli sbarchi nei porti di Pozzallo e Catania”.
Come è strutturata la tua giornata di lavoro durante uno sbarco?
“C’è da dire che, intanto, l’impatto è molto più forte rispetto a quando sono in tribunale. Cambia tutto, l’accoglienza avviene la mattina generalmente tra le 8 e le 9, quando la nave di soccorso porta sulla terra ferma i superstiti di questi viaggi della speranza. Generalmente ogni operazione prevede il soccorso di 4-5 barche con all’interno, a volte, anche dalle 700 alle 900 persone. Io, conoscendo la lingua inglese, affianco la polizia soprattutto in casi in cui vi sia la presenza di nigeriani anche se spesso, ancor prima di giungere al porto, disconosciamo la loro provenienza”.
Qual è il primo sentimento che alberga in te appena li vedi arrivare?
“Non è mai uno solo: osservare donne, uomini e bambini sfiniti dal viaggio, con i volti provati e gli sguardi impauriti di chi sa di aver superato l’inferno ma disconosce ciò che il futuro ha riservato per loro genera un mix di sensazioni. Rabbia, tristezza, pena e al contempo stesso desiderio di essere utili nel proprio piccolo”.
Che tipo di approccio comunicativo utilizzi con loro per venire in contro al lavoro della polizia investigativa?
“In genere facciamo domande dirette ma non c’è mai una regola precisa, dipende dai casi, dalle persone con le quali in quel momento stai interagendo, dalle storie. Tra loro c’è gente che ha subito lo shock di vedere morire in mare compagni di viaggio senza poter fare nulla perché, quando un barcone all’improvviso si rovescia e devi rimanere a galla per ore ed ore, stremato, non hai la possibilità di poter aiutare nemmeno il tuo migliore amico. Poi, ci sono gli occhi delle donne che hanno partorito durante il viaggio in condizioni estreme, quelli dei bambini infreddoliti e impauriti per ciò che hanno dovuto sopportare. In questi casi come fai a non avere umanità? A pensare di dover solo indagare senza considerare tutto ciò?”
Certo. Quando rientri a casa dopo una giornata di lavoro a contatto con esperienze del genere come ti senti?
“Mi sento fortunata e impotente allo stesso tempo. Come quella volta in cui ho dovuto assistere allo strazio di un giovanissimo nigeriano di 25 anni che doveva riconoscere, appena arrivato a Catania, il corpo della moglie morta durante la traversata. Quest’esperienza professionale sta ampliando la mia visione: è vero che in Italia, e in particolare in Sicilia, ci lamentiamo per la crisi, perché non vi è lavoro ma, davvero, i nostri problemi sono niente rispetto a chi scappa dalla propria terra per la guerra, senza una meta o la sicurezza di sopravvivere”.